QUELLE SPORCHE STORIE DI MAFIE


Uno sguardo dentro il tribalismo, tema comune a quei paesi in preda
alle organizzazioni criminali, come chiave di lettura delle dinamiche sociali


DI MARCO MARANO


























PIANO DI LAVORO
INTRODUZIONE
·         Le interzone del mondo
·         Il tribalismo mafioso italiano
·         I paradigmi dell’interzona
·         Lo schiavismo, il business delle nuove mafie

IL MIGLIOR MODELLO SOCIALE PER UNA MAFIA
IL VENTO DI MEZZOGIORNO
·         Silenzio entra il vento
·         Quando arriva da levante
·         Le terre toccate dai venti del sud
·         Le appartenenze
·         I diritti negati
·         Le oligarchie mediterranee

LA CITTA' COPERTA
·         Il giorno in cui tutto ebbe inizio

STORIE DI MAFIE DAL MONDO
DA UN ALTRO TEMPO E UN ALTRO LUOGO
·         Dentro il ghetto
·         L’oppressione del vuoto
·         La città immobile
·         La festa del santo patrono
·         L'intifada catanese

SOLO ANDATA PER L’INFERNO
·         Mondi da escludere
·         La ragazza di Benin City
·         L’inferno nigeriano
·         Il nuovo “ratto delle sabine” che lascia indifferente l’Italia

IN DUE GIORNI UNA VITA
·         In viaggio tra rimorsi e pianto
·         Le ragioni dell’odio
·         I pensieri girano ancora
·         La guerra delle maschere
·         Scalo a Casablanca
·         Processo ai bravi
·         L’inizio della fine
·         Un'altra vita da vivere

RAGAZZI DI FAVELA
·         Dimensione Brasile
·         Cronaca di un conflitto urbano
·         Come piccole risonanze

PERCORRENDO LA VIA EMILIA
·         I migranti schiacciati da ‘ndrangheta emiliana e interessi della curia
·         Zaman, dalla guerra in Libia alla morsa di ‘ndrangheta e speculazione


INTRODUZIONE

Le interzone del mondo

C’è una parafrasi che lo “scrittore maledetto” William Burroughs utilizzava per descrivere i luoghi del mondo che la società occidentale dell’opulenza ha deciso di sacrificare: le “interzone”… Sono dimensioni sociali ai confini, per lui Tangeri era l’interzona per eccellenza,  dove è ancora in atto la ricerca della libertà, intesa in senso illuministico. Luoghi depressi, luoghi devianti, luoghi privi di umanità…

Oggi, il concetto di interzona, in qualche modo può essere utilizzato come sintesi di quei territori del mondo, dove il tribalismo, o meglio sarebbe dire il neotribalismo del nostro tempo, diventa modello sociale. Innanzitutto occorrerebbe definire il concetto di “neotribalismo”. Una definizione possibile potrebbe essere la seguente: quando l’esercizio della violenza contro le popolazioni inermi diventa il principale strumento di controllo sociale, che sia esso definito da un sistema di potere costituito o meno. L’aspetto antropologicamente interessante sta nel fatto che le dinamiche tribali, in tutte le latitudini e longitudini, vengono tradotte, in relazione al controllo dei territori, attraverso pratiche mafiose nei confronti dei cittadini: sottomissione, affiliazione, taglieggiamento, minaccia, ricatto, violenza, silenzio, morte… C’è dunque una linea di continuità tra occidente depresso e sud del mondo…

Il tribalismo mafioso italiano

Su questo versante c’è un altro ragionamento da fare relativo al meridione italiano, dove la ricchezza del sistema di vita post-industriale, capitalistico e tecnologizzato convive con il neotribalismo della gestione mafiosa del territorio. Infatti, in questi luoghi sociali esistono prassi estremamente simili a quelli del terzo e quarto mondo, nella gestione del territorio, poiché la legittimità del concetto di autorità, come quello di norma collettiva condivisa non vengono necessariamente riconosciti allo Stato ma a terzi. Il potere decisionale passa attraverso le oligarchie che si trasformano in lobbies, clan, famiglie, gruppi imprenditoriali che attraverso il sistema politico-burocratico canalizzano le risorse economiche. Ecco perché in questi luoghi sociali aumenta sempre di più la forbice tra chi ha tantissimo e chi ha niente o poco, processo che ha praticamente eroso la classe media, e che la crisi economica ha semplicemente acuito.

I paradigmi dell’interzona

Gli elementi comuni tra occidente e sud del mondo possono essere, quindi, sintetizzati nell'anomia sociale, nell'assenza dei diritti di cittadinanza, nell'esautoramento dello stato di diritto e quindi dei luoghi di legittimazione del potere istituzionale, e soprattutto nella presenza di eserciti irregolari, legati a famiglie, che, in modo omnicomprensivo, possiamo definire mafiose, e che concorrono, con gli altri gruppi, alla gestione delle risorse economiche. Quest'ultimo elemento è quello più connotativo, poiché la presenza di eserciti irregolari o in regime di monopolio o antagonisti tra loro, ci riporta alla società tribale, cioè ad una società dove le tribù si combattono sul territorio per l'affermazione del proprio potere.

Il sistema di potere di tipo mafioso si contraddistingue per l’esercizio della violenza sul territorio, attraverso eserciti irregolari che hanno le loro zone protette, quartieri ghetto nelle città del sud Italia, le banlieu marsigliesi, le favelas  ai tropici, gli slums in Asia o i clan di ribelli nell’africa sub sahariana... Il fatto che il sistema oligarchico sia presente, con modalità istituzionali differenti, nei paesi mediterranei del sud, vedi  Italia e Grecia o anche balcanici, come l’Ungheria e altri paesi dell’ex impero sovietico, come tra i paesi cosiddetti sottosviluppati, ci porta a ragionare sull’elemento che fa da sintesi tra questi territori, geograficamente ed economicamente lontani, e che si identifica con lo sviluppo storico di questi paesi: l’anomia, cioè assenza di norme o regole. Se l’anomia è un concetto sociologico, dal punto di vista sociale, è possibile tradurlo in termini di illegalità diffusa o sistemica o ancora meglio nei termini di esautoramento dello stato di diritto. Cioè, laddove lo stato di diritto viene esautorato non esistono più confini tra lecito e illecito, e come abbiamo visto non dipende dal tipo di sviluppo economico, ma dal tipo di evoluzione culturale che quel paese ha avuto. E’ così che la linea rossa si sposta a seconda che le situazioni sociali lo richiedono.

Lo schiavismo il business delle nuove mafie

La via Emilia è oggi l’arteria principale, nel contesto del Nord Italia, dove viaggia un fenomeno che connota il nuovo schiavismo di massa… Siamo stati abituati a pensare, studiando i libri di storia, che lo schiavismo si fosse esaurito, agli albori della storia contemporanea, con la Guerra di secessione. Un fenomeno che si è travestito a fini di business, in prostituzione… E la prostituzione nelle strade, si sa, infastidisce il cittadino, turba il suo focolare domestico, per questo è necessario fare battere le ragazzine di quindici anni, rapite dall’Est, in luoghi lontani da scuole e servizi pubblici… È questa la lettura del fenomeno fece nel 2008 il celeberrimo pacchetto Amato, come quella di multare i clienti, facendogli arrivare le sanzioni nelle proprie abitazioni, come deterrente, come la legge Carfagna qualche tempo dopo… Nel frattempo, le nuove organizzazioni mafiose dell’Est Europa hanno guadagnano milioni di euro con la tratta degli esseri umani, potendo contare sulla complicità di cittadini italiani, nel nostro caso bolognesi, attraverso coperture territoriali e, peggio ancora, affari immobiliari.

Il progetto online “Radio Cento Mondi”


La gran parte del materiale presente in questo libro è stata realizzata nell'ambito del progetto “Radio Cento Mondi”, che nasce dal “ventre materno” dell'associazione di promozione sociale Orchestra Do Mundo. Il progetto si è sviluppato attraverso un sito dedicato per la sperimentazione dei prodotti editoriali e multimediali, che ha fatto da sintesi, alla proiezione dei contenuti, alla messa in rete di altri  blog tematici e all’apertura di più canali You Tube e Soundcloud.

La sua mission può essere ricercata nella possibilità di creare un’unica soluzione di continuità tra il nostro mondo e i “mondi diversi”, di cui però siamo volenti o nolenti “contaminati” da diverse generazioni, nella musica, nelle arti, nella gastronomia, può stimolare una nuova “cultura pubblica”.

Conoscere meglio chi sono quelle persone che riteniamo “diverse da noi“ e che incontriamo quotidianamente per strada o sull’autobus o al supermercato o ancora sul pianerottolo, può aiutare a comprendere che qualcosa di loro fa parte di noi da tempi remoti.
Diventa nevralgico promuovere una cultura informativa legata alle prassi della comunicazione giornalistica scevra dalle distorsioni del sistema mediatico, ristabilendo la giusta equazione tra gerarchia delle notizie e il valore pubblico delle stesse, al fine di superare dettami e stereotipie proprie al mercato delle notizie. E‘, in qualche modo, l’idea di ridefinire la mappa sociale della comunicazione, soffermandosi sui paesi del sud del mondo, per focalizzare l’attenzione su quello che succede laggiù.

Il racconto è la metodologia di lavoro utilizzata, le storie di vita privata, di chi diventa migrante, ne sono lo strumento, proprio perché quelle storie hanno una fortissima natura pubblica, in quanto ci spiegano il nostro tempo. Quelle storie sono la cronaca di tutti i giorni, drammatizzata dal mercato delle notizie, che però non spiega come noi, cittadini europei, siamo, in qualche modo, responsabili di questo dramma epocale.

Ma c'è anche un discorso sul linguaggio che ci tocca da vicino e ci stimola a mettere a fuoco diverse tipologie di comunicazione, testuale, sonora e visiva, col preciso intento di sperimentare forme di racconto, costruite su ritmiche diverse: è la narrazione delinea rizzata. Ognuna utilizza un linguaggio differente nel suo pezzo di racconto, senza un inizio e senza una fine, ma quando tutte vengono messe insieme diventano il racconto stesso. 

L'uso di materiale sonoro, proveniente dai media di massa videotelevisivi, e messi in rete, permette di amplificare la carica emotiva sul contrasto tra bianco e nero. Il Suono è come una mappa utile ma parziale, disegnata da tecniche di rilevazione dei “luoghi” ormai testate nel tempo e definite sotto il termine di “cut & mix”. Il Racconto sonoro, che si aggiunge a quello giornalistico, usa i moderni stili di contraffazione come il “mash-up” o il più tradizionale re-mix. Inoltre prefigura l'idea che frammenti di culture diverse e fisicamente lontane finiscano per somigliarsi al punto che gli elementi formino un linguaggio nuovo, fomentino emozioni. La Rete genera organismi che producono entità in cammino verso nuove identità e il racconto sonoro si imbeve di questa logica.


IL MIGLIORE MODELLO SOCIALE
PER UNA MAFIA


IL VENTO DI MEZZOGIORNO
Silenzio, entra il vento

Aruanà – Shii… Lo senti questo canto?
Viaggiatore – Si cos’è…?
Aruanà – E’ un canto d’amore. Parla del vento che tocca i cuori e le menti. E’ il segreto del tempo che raccoglie le passioni del mondo e le fa assomigliare le une alle altre…
Viaggiatore – Di che vento parli?
Aruanà – Immagina le città del mondo… Dove ricchezza e povertà convivono in un unico scenario… Dove i diritti di cittadinanza sono calpestati… Dove le razze si uniscono, ma spesso non riescono a convivere… Dove i più deboli sono destinati alla sconfitta sociale…
Viaggiatore – Si, ma che c’entra il vento?
Aruanà – Immagina un vento caldo che trasporta suoni, e che bacia tutte queste  città… E’ la musica che accoglie le storie delle donne e degli uomini di queste città…
Viaggiatore – La musica? Ma di cosa parli? Sempre cose complicate ti piace dire…!
Aruanà – Non c’è nulla di complicato nella musica. La musica unisce gli spazi, costruisce una unica identità… Così chi non ha niente può gridare al mondo che è ingiusto. Lo può fare con la rabbia, ma anche col sorriso… Perché ci sono storie, nelle città del mondo che parlano di noi stessi… della nostracattiva coscienza… Perché la società globale siamo noi stessi…
Viaggiatore – Ah, la società globale, giusto! Ma cos’è la società globale…?
Aruanà – Sono le città del mondo… Dove le culture si uniscono… Dove le razze interagiscono… Dove le dimensioni sociali che prima erano separate ora sono l’una a contatto dell’altra…
Viaggiatore – Ma da come ne parli sembra che sia un luogo fantastico…
Aruanà – Potrebbe esserlo se ci pensi bene… Il problema sono le merci…
Viaggiatore – Le merci? In che senso?
Aruanà – Nel senso che la società globale è dominata dalle merci: chi ha più da scambiare può dominare, chi non ha niente da scambiare è un dominato…
Viaggiatore – Ah, ho capito parli del terzo mondo…
Aruanà – Non necessariamente… Parlo di donne e di uomini, parlo di bambini… Parlo di quartieri… Parlo di povertà e ricchezza… E queste cose sono dappertutto….


Quando arriva da levante

Quando il vento caldo plana sull’asfalto è come se il tempo si fermasse. I movimenti sono sempre più lenti, le gote iniziano a sudare e la città sembra ridursi ad un involucro da cui è necessario uscire se si vuole respirare. E’ lo scirocco, i pescatori lo chiamano il vento di mezzogiorno, perché proviene da levante. Un vento caldo e umido che soffia in modo costante dai deserti africani. Quando è sul mare la sua potenza è massima, non appena rientra sulla costa s’indebolisce, ma l’aumento della pressione atmosferica rende il clima afoso e umido. E’ il vento del sud, insomma, che tocca i paesi caldi, a cui stranamente si rivela come chiave di lettura delle terre che raggiunge. Sono terre arroventate dal sole, dalle passioni, dagli umori. Sono terre dove i colori si riflettono con luci accecanti, dove le relazioni umane si confrontano con le passioni degli istinti, dove le regole comuni a tutti gli uomini vengono ridefinite all’interno di dinamiche che nulla hanno di comunitario ma che al tempo stesso si fondano sui sensi.

Le terre toccate dai venti del sud

Sono le terre toccate dai venti del sud a rappresentare la spia sociale di un mondo capovolto, non solo nell’area mediterranea ma in tutti i sud del mondo dove i venti caldi e umidi investono le interazioni umane, dove i significati e i significanti assumono dimensioni poco codificabili da quei popoli che il vento non tocca. E’ una sorta di comune denominatore che lega le traiettorie geografiche nell’insolvenza di astrazioni cosmiche. Qualcuno parla di regole non scritte, qualcun altro di fisiologico sottosviluppo dei sistemi e delle coscienze, fatto sta che questi popoli raggiunti dal vento del sud si definiscono in funzione di sistemi di significazione simbolica a se stanti, e questo a partire dal potere o per meglio dire dalla concezione del potere…

Le appartenenze

Il Potere è sinonimo di legame appartenenza, parentela, che si tramanda nel tempo. La città viene coperta. I luoghi dove il potere si esplica non sono i palazzi istituzionali, ma sono i salotti, le logge, le consorterie che assumono le conformazioni che meglio si addicono al contesto. L’affiliazione alla famiglia costituisce la credenziale e al tempo stesso la legittimazione per concorrere alla gestione delle risorse. L’appartenenza, l’affiliazione sono elementi fortemente connessi al tessuto culturale, che diventano fondamentali per poter ricoprire un ruolo nella società civile.

I diritti negati

I diritti negati di ogni singolo cittadino, in quanto soggetto individuale, possono essere riscattati solo con l’affiliazione, come semplice oggetto di scambio. E’ un sistema tradizionale, questo, dove la famiglia è il nucleo basilare dell’organizzazione sociale, che in qualche modo esautora il sistema istituzionale. Un sistema che si erge sulle sorti di popoli antropologicamente soggiogati e che amano farsi soggiogare, voltando spesso dall’altra parte lo sguardo quando si tratta di scontrarsi in prima persona con le contraddizioni della propria terra.

Le oligarchie mediterranee

C’è una parola che da qualche tempo rimbalza qua e là, tra le bocche dei politici italiani o le pagine dei media: “antipolitica”. Spiegava Saviano, in una delle sue apparizioni televisive, come le parole siano state espropriate dei loro significati. Parole importanti come famiglia e onore ad esempio sono diventate sinonimi di mafiosità.

Al di là di qualsivoglia interpretazione semiotica, la verità è che il rapporto tra significante e significato, cioè tra piano del contenuto e piano della forma di sassuriana memoria, non è più legato allo specifico linguistico di un paese ma piuttosto al contesto storico-sociale in cui si evolve.

Il concetto di antipolitica riporta a significati legati alla negazione della politica quale strumento per la salvaguardia del senso di comunità, del bene pubblico, del benessere sociale. Perché è di questo che la politica dovrebbe occuparsi. Del resto, questi sono gli elementi fondamentali dello statuto etico su cui si regge un sistema politico liberal-democratico.

Qualche settimana fa la Presidentessa del Brasile Dilma Rousseff, che ricordiamo ha un passato di comunista combattente durante la dittatura, per questo arrestata e torturata, in un recente servizio del New Yorker criticava l’Europa per la gestione politica della crisi economica, osservando che alla base della rinascita brasiliana vi è un semplice assunto, tra l'altro, legato alla tradizione liberal-democratica: “migliorare le condizioni di vita del popolo”.

Si, però, c’è qualcosa che non torna. Lasciamo perdere l’assenza di dimensione politica dell’Unione Europea, ormai conclamatasi in “Unione Bancaria Europea”, visto che il fallimento della Grecia, con quello che significa dal punto di vista sociale, lascia praticamente tutti indifferenti, concentriamoci sull’Italia e sullo statuto etico alla base del suo sistema politico.

Se, come diceva Dilma Rousseff, la politica, in democrazia, dovrebbe identificarsi col miglioramento delle condizioni di vita del popolo, in Italia a chi dovrebbe essere affibbiato il concetto di antipolitica, ai partiti tradizionali o ad esempio al Movimento Cinque Stelle?

Andando a spulciare gli ultimi rapporti statistici tra Istat ed Eurobarometro, tanto per non restare legati alla vita quotidiana di ognuno di noi, esce fuori una fotografia incredibile, al di là della crisi economica.

Il 52 per cento delle pensioni è sotto i mille euro, il 16 per cento dei minori è in povertà relativa, gli stipendi sono i più bassi e le tasse sono le più alte tra i paesi industrializzati, le tasse sul lavoro sono le più alte d’Europa, e il livello di evasione fiscale è il più alto tra i paesi occidentali. Due persone su tre entrano nel mercato del lavoro per clientela, ecco perché, oltre al tasso catastrofico di disoccupazione, vi è una larga fetta di popolazione giovanile che non avendo rapporti di clientela familistici, rinuncia a cercare lavoro.
Praticamente cinque regioni della penisola hanno i territori controllati da apparati militari irregolari, mafia, camorra, ndrangheta, dove esercitano il controllo dei sistemi economici illeciti, maggiore del prodotto interno lordo lecito: ma questa è storia antica, anzi antichissima. Una storia antica con prove e riscontri sul fatto che questi eserciti irregolari hanno il “lascia passere” del sistema politico, il quale anziché puntare sul miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini utilizza i fondi pubblici per il proprio arricchimento: dalla Cassa per il Mezzogiorno al Fondo Sociale Europeo.

I parlamentari italiani sono i più pagati d’Europa, dopo un referendum che aboliva il finanziamento pubblico dei partiti, hanno cambiato il nome chiamandoli rimborsi elettorali. Entrare nel parlamento italiano significa “fare i soldi”, anche perché i partiti, proprio per questi meccanismi e dunque per l’ingente mola di danaro che gestiscono, senza nessun obbligo contabile, poiché non sono soggetti giuridici, assomigliano più a dei sistemi bancari che non ad organizzazioni politiche.

Per tali ragioni, dalla pubblicistica, questo sistema è stato connotato in termini di “casta”. E le caste difficilmente lasciano le proprie “rendite di posizione”. Ecco perché è tecnicamente impossibile che in Italia ci possa essere un ricambio generazionale del sistema politico, come in ogni sistema liberal-democratico che si rispetti, dove una volta finito il proprio ciclo vitale gli uomini politici escono di scena. 
Inoltre, come ogni casta oligarchica, essa è assolutamente incapace di leggere la realtà poiché è concentrata sul mantenimento della propria realtà. Ciò significa che le leggi che vengono prodotte anziché migliorare le condizioni di vita della gente il più delle volte le peggiorano.

Due esempi per tutti… Chi si ricorda della legge Biagi, o per meglio dire “pseudo” Biagi? Una legge che era stata salutata come la panacea di tutti i mali, che avrebbe migliorato il mondo del lavoro italiano… E cosa hanno fatto gli oligarchi? Hanno inventato miriadi di forme contrattuali, mantenendo precarietà e vassallaggio, hanno messo l’obbligo per il lavoratori autonomi di aprirsi le partite iva, aumentandone le spese di gestione e le tasse. Per un lavoratore autonomo che fattura 15000 euro l’anno cosa significa aprire una partita iva, migliorare o peggiorare le condizioni di vita? Oppure, cosa significa per un lavoratore autonomo essere “assunto informalmente” da un’azienda attraverso la partita iva, migliorare o peggiorare le sue condizioni di vita?

E che dire della legge contro l’immigrazione, con la creazione dei CIE, dove chi non è in regola con il permesso di soggiorno viene arrestato. Bisogna ricordare che attraverso di essa sono stati respinti cittadini dell’Africa sub sahariana in possesso dei requisiti per la domanda di protezione internazionale, sancita dal diritto internazionale, vedi Convenzione di Ginevra del ‘51, e questo avveniva quando i dittatori, prima della primavera araba, erano partner privilegiati dell’Italia, i quali hanno accolto i respinti nelle loro galere tra torture, stupri e massacri silenziosi; quei respingimenti sono stati poi sanzionati dalla Corte di giustizia europea.

Ma un’altra brevissima storia vogliamo raccontare, quella di un giovane che vuole fare l’imprenditore, ammesso che abbia dei soldi o delle rendite familiari che possano garantire i crediti bancari, perché viceversa nessuna banca lo finanzierebbe. Ecco, quel giovane imprenditore dovrà fare una via crucis di mesi o anni tra le carte bollate e gli adempimenti burocratici, poiché solo per spostare un fascicolo da una scrivania ad un'altra in un ufficio della pubblica amministrazione qualsivoglia possono passare mesi. Se quell’imprenditore vive in Sicilia prima o poi gli verrà offerto l’aiuto di questo o quel boss per “risolvere la situazione” per poi tornare il favore a futura memoria, vita natural durante, se invece vive in Lombardia basta una o più mazzette a questo o quel impiegato di turno o politico di riferimento.

Ma un altro quesito sorge spontaneo: la fotografia di un paese come questo è più simile alle nazioni industrializzate di tipo liberal-democratico o piuttosto agli stati oligarchici sudamericani o africani? La risposta appare scontata, per cui si potrebbe parlare di uno strano caso di "oligarchia mediterranea", dove, appunto, viene corrotto lo statuto etico del sistema politico, non più legato al miglioramento delle condizioni di vita del popolo, ma all’arricchimento delle oligarchie in quanto tali.
In termini ancora più peggiorativi è lo stesso modello costruito in Grecia all’indomani della dittatura dei colonnelli, che ha portato negli ultimi anni l’establishment a truccare i conti delle leggi di bilancio. Ma è anche la condizione della Spagna, dove la corruzione dello statuto etico del sistema politico sta portando il paese verso la catastrofe. Ecco perché possiamo parlare in questi casi non di sistemi libelral-democratici ma di oligarchie mediterranee, che sono poi quelle che rischiano di essere espulse dalla zona euro, proprio perché la crisi internazionale ha evidenziato le loro difformità.
Abbiamo allora la certezza, per ritornare alla domanda iniziale sul significato della parola “antipolitica”, che essa non si riferisce al significato semantico del termine, perché se così fosse in Italia l’antipolitica sarebbe rappresentata proprio dallo stesso sistema politico, costruito sulle fidejussioni bancarie, sulle rendite di posizione delle “famiglie” interne ai partiti e sulle carriere dei singoli parlamentari.
Però attenzione, non bisogna dirle queste cose a chiare lettere e neanche con semplificazioni del tipo “sono tutti uguali, sono tutti ladri!” Al limite si potrebbe semplicemente bisbigliare perché se no si rischia seriamente di essere presi per qualunquisti oppure populisti e perché no anche demagoghi…


LA CITTA' COPERTA
I giorni in cui tutto ebbe inizio

La città s’era appena svegliata quella mattina di fine agosto. L’estate stanca si accingeva a raggiungere il traguardo finale. L’aria calda appesantiva i movimenti dei primi passanti, rito che del resto in quella stagione si ripete ogni anno giù in Sicilia. Le strade della città antica tornavano ad essere protagoniste, dopo l’irriverente solitudine della notte, ancora traumatizzata dai disastri della guerra. Una città soffocata dalla speranza d’una veloce ricostruzione, non ancora avviata poiché nel paese si continuava a combattere.
Una città confusa, dove legittimato a ristabilire l’ordine e la normalità era un esercito straniero. Gli alleati avevano suddiviso la Sicilia in due aree d’influenza: la parte occidentale, il cui centro operativo era Palermo, fu gestita dall'esercito americano,mentre la parte orientale, il cui centro operativo era Catania fu affidata agli inglesi, con a capo il famigerato Tenente Colonnello French.
L’ufficio politico dell’alto comando alleato faceva riferimento al rito scozzese della massoneria anglosassone. Infatti il progetto di ricostruzione del sistema politico comunale, appena la città venne liberata, iniziava proprio con la nomina a sindaco, da parte dell’alto comando alleato di un vecchio aristocratico massone, un cosiddetto “33”, cioè un gran maestro.  Ma che fosse un massone ad essere nominato dagli inglesi sindaco della città liberata non c’era nulla di strano, anche perché l'aristocrazia massonica governava la città dalla fine del secolo passato. Il marchese nominato sindaco però, cosa alquanto bizzarra, era stato non di meno l’ultimo podestà fascista… Il primo cittadino del regime sconfitto diventava cioè primo cittadino del regime vincitore. Pratica questa adottata in molte altre città del sud via via liberate.

Quella mattina di fine agosto del 1943, in via Carità, una di quelle strade appese tra l’antico splendore del barocco settecentesco e la tipicità morfologica d'un altrettanto antico assetto viario, si fermò una grande e scura automobile. Una di quelle vetture dell’alto comando alleato, un po’ in contrasto con quel territorio urbano ferito dai bombardamenti. Da uno degli sportelli posteriori scese un ufficiale dell’esercito inglese. Indossava la divisa d’ordinanza, e tra le mani stringeva il solito frustino che ogni tanto faceva schioccare: era il colonnello French che insieme ad un paio d’intendenti entrava dentro un portone. Uno dei due assistenti si avvicinò al vecchio portiere chiedendo in un italiano spezzato a che piano abitava il professore Carmelo D'Arrigo. L’interpellato accennò un tenue sorriso, divertito dalla pronuncia del ragazzotto anglosassone: “O secunnu sta u pruussuri!” E per meglio farsi comprendere fece un cenno con le dita.

Il professore D'Arrigo era un insegnante di matematica. Un uomo serio, rigido, a cui i figli dovevano baciare la mano quando rientrava in casa. S’era diplomato negli anni venti all’antico liceo fisico-matematico, quello che poi diventerà il liceo scientifico, e già allora aveva iniziato la carriera di insegnante privato. Nel ’23 il giovane D’Arrigo divenne presidente dell’Azione Cattolica, dove conobbe Luigi Sturzo, a cui ideologicamente rimarrà legato per tutta la vita.
La sua militanza durò poco poiché i fascisti misero fine all’attività dell’organizzazione assaltando la sede, malmenando il suo presidente, facendogli bere il solito olio di ricino. Da quel momento il professore divenne ufficialmente antifascista, e decise di non laurearsi, poiché durante l’esame di laurea era obbligatorio indossare la camicia nera. Continuò la sua attività di docente privato, fin quando fu denunciato e quindi costretto a formalizzare la propria posizione accademica. Durante la seduta di laurea anziché indossare la tradizionale casacca del regime, mise un panno nero che la moglie utilizzava per stirare i panni. Fece un grande foro e se lo infilò come se fosse un poncho messicano. Al ritorno preso da uno scatto d’ira, si tolse il tessuto e prendendolo a morsi lo ridusse a brandelli.

La delegazione inglese bussò alla porta, fu lo stesso professore ad aprire, visto che la moglie era intenta ad accudire i loro cinque figli. “Buon giorno professore – esclamò il militare in un discreto italiano – sono il colonnello French, e a nome dell’esercito inglese le porgo i saluti”. Il professore restò decisamente perplesso, ma anche un po’ imbarazzato, poiché l’appartamento era in disordine. I bambini giocavano facendo un fracasso infernale. Per di più nessun salotto da ricevimento era appropriato per accogliere il capo dell’alto comando alleato, poiché alcune stanze erano state lesionate dalle bombe cadute attorno all’abitazione.

In effetti quella casa aveva una storia tutta particolare. Era una residenza enorme. Un lungo corridoio di quaranta metri, che praticamente univa due appartamenti, faceva da passaggio a tre immensi saloni e a diverse camere da letto, a cui si aggiungevano due complessi cucine poste agli estremi. Durante i bombardamenti degli alleati i saloni vennero tutti distrutti. Bombardamenti che in teoria non avrebbero dovuto effettuarsi, poiché davanti al palazzo vi era l’ospizio di beneficenza Asilo Sant’Agata, tutelato dal Vaticano. Per tal motivo doveva essere in vigore il divieto di scaricare ordigni attorno a quell’area. Infatti i tetti dell’ospizio erano ricoperti da bande bianche e gialle, i colori del Vaticano appunto. Ma da informazioni dell’intelligence gli americani sapevano che dietro quei simboli si nascondeva un comando nazista. Così fecero fuoco coinvolgendo i palazzi adiacenti.

Il professore chiamò la moglie e la presentò all’ufficiale. “Deve scusarci caro colonnello – disse la consorte – ma sa questa è l’unica sta che le bombe ci hanno risparmiato”. Era il salottino piccolo, in stile Luigi XV. Una grande libreria a muro sovrastava il divano in noce scolpito mano e coperto da un panno rosso in fustagno. French si avvicinò alla biblioteca soffermandosi innanzi a dei testi di Proust. Uno in particolare destò la sua attenzione, e col proverbiale snobbismo inglese esclamò: “Vedo che lei possiede la Bibbia d’Amiens… Se mi permette l’appunto, caro professore, questo libro è stato semplicemente tradotto da Proust ma appartiene al nostro John Ruskin… Mi chiedo come mai lo ha inserito tra i testi francesi?” “Colonnello – rispose D’Arrigo –quel testo è stato tradotto dall’autore di Alla ricerca del tempo perduto. Lei crede davvero che altrimenti il suo Ruskin sarebbe oggi conosciuto?” il colonnello tacque, del resto aveva voluto sfidare un intellettuale sul suo terreno.

“Prego, si accomodi – sdrammatizzò la padrona di casa – si sieda su divano vicino ai suoi uomini”.
“La sua gentilezza mi onora” rispose French.
“Posso offrirle qualcosa signor colonnello?”
“Grazie signora non si scomodi”.
“Forse i suoi uomini non hanno mai bevuto il nostro latte di mandorla… e lei signor colonnello lo ha mai assaggiato?
“No signora, ma mi hanno detto che è una delle cose più buone della vostra terra”.
“Allora deve per forza assaggiarne un po’”.

La tensione calò immediatamente grazie all’intervento della padrona di casa. Il professore guardò il gentiluomo inglese e non poté fare a meno d’interrogarlo.
“Mi perdoni signor colonnello, ma lei come mi conosce?”
“Ha ragione professore, forse avrei dovuto presentarmi in modo diverso. Io sono a capo dell’alto comando alleato distanza in città. Il nostro compito è quello di ricostruire il sistema istituzionale. Di lei sappiamo tutto. Sappiamo che è stato un autentico antifascista, sappiamo che ha diretto l’Azione Cattolica, sappiamo che è accreditato in Vaticano…”
Un certo stupore coprì il volto di D’Arrigo che nel frattempo era stato raggiunto dalla moglie che teneva un vassoio d’argento tra le mani, in cui erano adagiati dei bicchieri colmi di latte di mandorla.

“Le proponiamo, caro professore D’Arrigo, di entrare a far parte del CLN, come esponente delle forze cattoliche.”
“E perché proprio io?”
“Ma professore lei è uno dei personaggi più rappresentativi di questa città. Lei è un intellettuale che ha avuto un ruolo attivo nella crescita di questo territorio. Per noi lei è un personaggio affidabile…”
“Potrei sapere quali sono i vostri piani?”
“Come lei saprà abbiamo già nominato il nuovo sindaco, il marchese di San Germano, persona rispettabilissima che appartiene ad una famiglia di antiche tradizioni istituzionali… La cosa per noi importante che a uomini come lei sia affidato il compito di far rinascere questa città…”
“Ma io non ho nulla a che fare col marchese di San Germano...”
“Sappiamo che la sua è un'altra estrazione, ma il suo impegno nelle forze cattoliche di questo paese è per noi una garanzia di affidabilità. In questo momento è assolutamente fondamentale l'affidabilità istituzionale, al contrario di certi indipendentisti di cui non abbiamo fiducia...”


STORIE DI MAFIE DAL MONDO


DA UN ALTRO TEMPO E UN ALTRO LUOGO
Dentro il ghetto



ESPRESSO SERA
17 dicembre 1990
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Picanello ha una sua fisionomia diversa dalle altre. E’ una piccola città nella città, un’area limitrofa alla zona bene di cui, gli abitanti del quartiere, si sentono estranei. All’angolo di un bar, adiacente ad un muro, troviamo Totò, ovviamente il nome è di fantasia. La sua età è indefinibile, ma a prima vista sembra aver da poco raggiunto la maggiore età. Alto, lineamenti marcati, con una leggera balbuzie. Appena lo vediamo ci coglie per un attimo un certo imbarazzo, poiché inizia ad emettere sillabe confuse, con uno strettissimo dialetto che a stento riusciamo a decodificare.
“Faccio il muratore a Siracusa, – puntualizza Totò – ogni tanto non sempre. Ci sono arrivato tramite amici. Però mi fa schifo, non mi piace lavorare, ho problemi con la testa, perché quando ero piccolo cadevo spesso dal motorino e dalle scale…”

Le tipologie d’insediamento dell’area metropolitana, che siano di nascita recente o più antiche, periferiche o extra periferiche, si sono evolute in maniera omogenea, connotandosi per alcuni elementi comuni come il basso costo dei terreni. Ma le caratteristiche socio-ambientali che meglio accomunano queste zone si possono sintetizzare in espressioni indelebilmente legate al vocabolario tipico delle aree urbane meridionali: emarginazione, alienazione, assenza di servizi e infrastrutture, degrado, impossibilità d’interazione tra il quartiere e la società civile. E ovviamente a farne le spese sono i ragazzi come Totò, protagonisti di una drammatica vicenda quotidiana, passando, con estrema facilità, dallo scippo all’omicidio.

La scuola Recupero è proprio ubicata nel cuore del quartiere, ed il suo preside ci parla dei suoi alunni: “I ragazzi che entrano qui dentro vivono una situazione multiproblematica sia dal punto di vista socio-economico che culturale. Fondamentalmente sono soggetti a continue e costanti violenze, alcuni sono addirittura portatori di handicap psicofisici causati dalle percosse subite”.
La cosa che sembra balzare più agli occhi, camminando per le strade del quartiere, è il senso di separazione dal resto del mondo. E’ una separazione culturale che si è storicizzata nei decenni o forse nei secoli e che sembra imprimere un distacco tra dimensioni territoriali attigue, tali da riflettersi anche sulle coscienze. “Ti voglio raccontare una cosa – sottolinea Totò – che mi è successa qualche giorno fa. Camminavo per il viale e ho conosciuto un ragazzo. Quando gli ho chiesto dove abitava e se potevamo uscire assieme, lui mi ha risposto che non sarebbe stata una cosa buona andare a casa sua, perché tutti mi avrebbero guardato male… Io vorrei avere amici diversi da me, ma non posso!”

Totò ha frequentato le elementari, poi, una volta che il padre morì, fu costretto a lasciare la scuola per andare a fare lavori saltuari: aveva solo 11 anni. Le sue giornate le passa sempre al bar insieme agli amici. Vorrebbe uscire la sera, andare in discoteca in birreria, ma si ostina a dire che non può:“Dove vuoi che vada con quelli…? Guarda che tipi…”

Entrando dentro il “ghetto” è chiaro lo squilibrio nella mappa dei bisogni, causato da sperequazioni e sfruttamento e dalla composizione di una classe politica che ha prodotto condizioni di vita al di sotto dei valori fondamentali della convivenza civile. Su tutto questo regna l’indifferenza generalizzata di chi grida al lupo al lupo quando il danno è già stato fatto.

“Per questi ragazzi la scuola – conclude il preside – è un punto di riferimento importante. Se sospendo un alunno il giorno dopo me lo ritrovo fuori dal cortile. Ciò vuol dire che il messaggio che noi inviamo loro viene recepito appieno, anche se non possono interiorizzarlo…”Questo significa che in linea di potenza esiste da parte di ragazzi come Totò una voglia di riscatto che non viene soddisfatta. Certo, lo stigma criminogeno non aiuta un tessuto giovanile invaso di per se dalle influenze devianti. E su questa problematica che si annoda la vita di questa gente.

Intanto davanti al bar Totò si accorge che si sta avvicinando una bella ragazza che ha in mano un sacco dell’immondizia. Si guarda intorno ma non trova il cassonetto. Lui, in un italiano quasi perfetto, le dice:“Guarda che se cerchi il cassonetto è dietro l’angolo!”. La ragazza senza rispondere si allontana diffidente. Poi il giovane, toccandosi sotto la cintura, esclama: Ah che le combinerei a quella!” Quando gli chiedo perché non si trova una ragazza la sua espressione si gonfia in una smorfia di paranoia:“Sarebbe bello! Così potrei avere una famiglia, certo ci vorrebbe un lavoro per sistemarsi…”

Totò certo non ha nulla dello stereotipo che lo vorrebbe manovale di un clan mafioso, piuttosto assomiglia ad un giovane uomo a cui non viene riconosciuta cittadinanza, per il sol fatto d’essere nato in un quartiere ghetto.“L’unica ragazza che m’interessa veramente è quella che lavora al bar, ma è troppo bella e interessa a tanti, però nessuno ha il coraggio di chiederle di uscire, perché se rispondesse di no gli altri lo prenderebbero in giro, ed io non ho nessuna voglia di farmi prendere per in giro da quelli!”

L’oppressione del vuoto

ESPRESSO SERA
18 agosto 1991
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“Si, si, lo sappiamo che poi quelli vengono per i voti… E noi votiamo… Votiamo, mi raccomando…!” Inizia così lo sfogo di una mamma che tiene in grembo la propria figlioletta, innanzi al portone di casa, in una di quelle strade tra le più disagiate del paese… La donna urla a squarciagola in dialetto la propria contrarietà alle condizioni di vita di questa cittadina dell'entroterra siciliano… Se la prende con i politici, che s’interessano a lei solo in periodo di “elezioni”, per prendersi i voti…

Camminiamo in questa città che sembra appesa sul nulla, dove nulla è percepibile tranne che il suo degrado. Sembra un laboratorio dove si sperimentano le pratiche della tragedia sociale. Ed è proprio questo senso di vuoto che è sempre più soffocante. Il vuoto di una riserva protetta per animali in via d’estinzione, dove la convivenza tra la gente è mediata dal senso di instabilità permanente, perché solo attraverso l’instabilità è possibile il dominio… Camminiamo in questa città dolente, dove l’evoluzione del tempo sembra essersi fermata… E’ una civiltà decaduta, in cui il tempo scorre con una ritmica inversa rispetto ai processi di sviluppo della società post-industriale.

C’era un tempo, verso la fine dell’ottocento, quando alcuni intellettuali denunciavano la disperata situazione del mezzogiorno d’Italia: la questione meridionale… Qui, adesso, sembra rimasto tutto come allora… E’ questo è un altro elemento significativo per riuscire a leggere una cittadina di provincia, dell’isola, avamposto d’Europa… Il tempo… Perché il concetto di tempo non ha una chiara definizione, quindi esso non è necessariamente legato al progredire, al trasformare…

Entrando nella città dolente, proprio dall’altra parte della strada dove è posta la segnaletica che indica l’inizio del paese, vi è lo scheletro in cemento armato di un edificio in costruzione. E’ questo il biglietto da visita della città… Inoltrandosi all’interno, ci si imbatte in una quantità innumerevole di edifici lasciati a metà. Sembra un grande cimitero edilizio, dove la parola abusivismo fa da epitaffio buono per tutti…

C’è da dire che qui non esiste un piano regolatore. Quello che venne disegnato agli inizi degli anni settanta non è mai stato applicato, né tanto meno sono state applicate le revisioni al PRG, delineate alla fine degli anni ottanta… Forse è proprio questa la spiegazione che ha portato alla nascita due quartieri totalmente abusivi, legalizzati attraverso i piani di fabbricazione…

Una situazione traducibile complessivamente nella mancanza di opere pubbliche primarie previste in ogni piano, senza le quali una comunità non può dirsi tale, ma tutt’al più può essere assimilata ad uno di quei villaggi del vecchio west dei film di John Ford… Non esiste la minima programmazione sui servizi da destinare alla cittadinanza. Eppure negli anni sono stati stanziati dalla Regione e dalla vecchia Cassa per il Mezzogiorno, circa sedici miliardi di lire per le infrastrutture. Alcuni lavori sono stati avviati, ma mai nessuno è stato portato a termine. Dal Macello comunale alle scuole, dalle strade all’illuminazione… Vi è per esempio in fondo a via Ruggero VII uno spazio originariamente destinato a parco giochi per l’infanzia, e non c’è nient’altro che una squallidissima piazza senza nome, dove un paio di bambini possono rincorrersi con lo skatebord…

Facciamo un giro per questa piazza che non può avere la fortuna neanche di essere chiamata in qualche modo, perché l’amministrazione comunale non ha mai provveduto a titolarla… E’ grandissima ed ha una sorta di piccolo monumento che si può osservare in prospettiva da diversi punti… Uno spazio vuoto in un pieno pomeriggio di sole, il sole accecante della Sicilia… Cerchiamo giovani,  ragazzi con cui parlare, ma niente… Ci viene incontro il responsabile di un’associazione il “Gabbiano”, che mi fa da Virgilio in questo viaggio un po’ kafkiano… Non mi dice il suo vero nome ma semplicemente il soprannome: in paese lo chiamano VanGogh, poiché ha la passione per la pittura… “La pittura mi consente di astrarmi… Mi consente di uscire fuori dai confini dell’alienazione che questa città può rappresentare…” VanGogh in realtà è un impiegato comunale, laureto in Filosofia con 110 e lode, tesi pubblicata, dottorato in Francia, scaricato dall’Università improvvisamente, per far posto al nipote del docente ordinario possessore di cattedra. Una volta trovatosi per strada, gli venne fatta una proposta da uno zio legato al partito di maggioranza,  per metterlo in quota per un posto di amministrativo al Comune, tramite un concorso per diplomati… C’erano tre posti disponibili: uno al Sindaco e gli altri due ai partiti di maggioranza. “Quello fu l’ultimo concorso effettuato al comune – osserva ironicamente – Che fortuna eh…, che fortuna che ho avuto…”

Ma i giovani? Dove sono i giovani in questa città? Sembra, da quello che racconta VanGogh, che in paese si sia sviluppato uno strano fenomeno di disagio giovanile, quello del vagabondaggio…“Pensaci un attimo – sottolinea VanGogh – in un luogo dove non esiste nessun riferimento sociale ed educativo con cui rapportarsi, quali percorsi possono essere praticabili per gli adolescenti? Non hanno niente, a parte l’oppressione del vuoto e del degrado… Non possono far altro che costruire il proprio protagonismo, in un contesto sociale che non li riconosce, attraverso l’unione di gruppo, dove far convergere le singole frustrazioni…” Il gruppo dunque diventa l’unica espressione di forza, l’unica dimostrazione al mondo dell’essere vivi, fino a far sfociare la propria rabbia negli atti di teppismo che il gruppo/microbanda compie ai danni di una comunità fantasma. Del resto è la solita vicenda di qualsiasi ghetto dove non esiste la presenza “massiva” di una criminalità organizzata, anche perché in quel caso il gruppo sarebbe stato manovalanza per la mafia…

Quello giovanile è sicuramente un problema serio, e l’assenza di strutture sociali adeguate, che possano rispondere ai bisogni, è uno degli aspetti più inquietanti che connota il fenomeno della criminalità spicciola sempre presente. Il risvolto della medaglia è che l’alto tasso di abbandoni scolastici si lega incredibilmente alla carenza di edifici da destinare alla scuola. In paese esiste una scuola elementare ed una scuola media… Ma il copione drammaturgico scritto e riscritto per questi luoghi archetipici dell’abbandono umano vede nella droga il suo atto simbolico conclamatorio. La città dolente ha una densità di sedicimila abitanti, di questi circa mille sono tossicodipendenti. Ma questo non si può dire… Nessuno infatti ammette l’esistenza del dramma, le famiglie si nascondono dentro i gusci di omertà affinché non si sappia che i propri figli “si fanno le pere”. Non esistono dati ufficiali, e questo rende la tragedia ancora più delirante… Bisogna comunque dire che nella città dolente non è possibile quantificare, mediante lo strumento statistico, proprio un bel niente… E’ gioco forza constatare che non esistono enti sociali che si “approccino” alle problematiche della droga. Anzi no, in effetti questo non è corretto, perché in realtà c’era un’associazione che si occupava di queste cose: “Il Gabbiano”, l’associazione di cui era presidente VanGogh. “L’associazione esiste sulla carta, in questo momento non abbiamo i soldi nemmeno per pagare l’affitto di una sede. Ne abbiamo chiesta una al Comune ma niente. Alla fine degli anni ottanta la Giunta aveva emesso una delibera, stanziando per noi dieci milioni, ma questi soldi non si sono mai visti…”

Ma che razza di posto è questo…? Sembra tutto così irreale… Sembra irreale l’indifferenza della gente, di chi fuori dalle mura non sa. Sembra irreale la tracotanza di un potere che impunemente sottomette la cittadinanza attraverso la stoltezza del non-sviluppo. Sembrano irreali queste macerie sociali su cui è stata costruita la povertà… Sembrano irreali certe storie assurde che raccontano del modo in cui si vive qui…

Dal punto di vista istituzionale, ad esempio, l’Amministrazione comunale sono anni che non assolve neanche al disbrigo dei concorsi pubblici. Non esistono all’interno dell’apparato burocratico dei capo-settore laureati. Esempi emblematici sono quelli dell’Ufficio tecnico, formato da diciassette geometri, senza che vi sia un ingegnere o un architetto che li diriga, e del corpo dei vigili urbani che manca di un comandante… Così la pianta organica diventa una mappa assolutamente aleatoria.

Ma c’è un’altra storia da raccontare... Perché questo paese potrebbe teoricamente vantare una grande ricchezza produttiva, ma paradossalmente questa si trasforma in uno strumento di ricchezza privata per pochi… Accade che i grossi produttori del comparto agrumicolo riescono a smistare, cosa che sembra essere pratica corrente ormai da tempo, le acque della diga esclusivamente nei loro terreni, eliminando così dal mercato i più piccoli concorrenti… E’ questa la spiegazione che viene data rispetto al fatto che il Consorzio di bonifica, pur riscuotendo le tasse dei contribuenti, non manda le acque sulle terre coltivate, causando un arresto inevitabile della produttività per ciò che concerne l’unica risorsa del tessuto economico…

“La gente è esasperata – dice VanGogh – si agita, contesta, non può più sopportare questo stato di cose… L’epoca della cultura mafiosa è l’epoca dei nuovi schiavi, che anziché essere frustati dalle corde dei padroni vengono resi sudditi dalla minaccia della propria disperazione…”
Sedicimila anime e un niente che li sorregge alle angherie a cui quotidianamente sono soggetti. Si dice che qui non c’è la presenza invasiva di clan mafiosi, qualcuno osserva che un posto come questo non è produttivo neanche per la mafia. Ma questa è una città mafiosa, nella rassegnazione all’illegalità, nella resistenza alle leggi morali e civili, nella “voluttà epidermica” nel non osservare le leggi, che grazie agli insegnamenti degli amministratori, si trasforma nell’atavica sfiducia nei riguardi delle regole democratiche… In effetti qui non vi è nessun bisogno di utilizzare la violenza e la coercizione mafiosa, poiché la disperazione diventa la forma di ricatto più facile, soprattutto più politica… E’ la cultura mafiosa appunto, cucita dentro le radici del territorio, che si esprime nelle beghe di un establishment locale impegnato nella corsa allo smantellamento della convivenza civile… Qui non cambierà mai niente…

La città immobile

ESPRESSO SERA
18 novembre 1991
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Le dimissioni del Sindaco possono essere considerate il frutto della triste tradizione amministrativa che il comune può annoverare nella sua storia, considerato che le politiche territoriali sono passate in mano ai clan mafiosi. In effetti, lo smantellamento della società civile sembra essere la linea di congiunzione tra tutti i comuni dell’area metropolitana, il cui fulcro diventano proprio quei meccanismi istituzionali portati alla degenerazione.

Le lotte intestine interne ai singoli partiti, con i loro gruppi di potere dove nessuno riesce in qualche modo a predominare, rende ingovernabile il sistema politico locale. E’ il caso, come al solito, della Democrazia cristiana, partito di maggioranza relativa, i cui equilibri interni si proiettano sui destini della gente. Quella gente la cui città è rappresentata come una base del cosiddetto “triangolo della morte”.

Sono quattro le correnti del partito che all’interno del Consiglio comunale si fanno la guerra, che giunta al culmine ha decretato la morte dell’amministrazione monocolore, che poi si identificava con una di queste correnti appunto. Ma qual è la ragione che ha portato al mutare di questi equilibri? Nessuna cospirazione, nessuna trama particolarmente oscura, semplicemente si ripete lo schema standardizzato, all’interno del quale una corrente aumenta o diminuisce di peso a seconda delle defezioni della stessa e la transumanza in altre. Su questa “conditio” si regge la stagnazione della vita amministrativa, che non permette da parecchi anni le normali attività gestionali da parte dei governi locali.

In sostanza non è possibile governare. Lo strumento più in voga per imbrigliare il sistema è l’assenteismo dalle sedute consiliari. E’ un copione oleato oramai, in cui sono perfettamente descritte le manovre concertate da utilizzarsi. Sono queste le abitudini dei gruppi di potere, in nome del mantenimento del proprio feudo.

Intanto il sindaco, mentre si accingeva a sciogliere la giunta, veniva criticato poiché dichiarava che nel suo comune non esiste la mafia: “Credo di essere stato frainteso,  – si giustifica l’ex sindaco – io sono un amministratore e non tocca a me stabilire se la mafia c’è o non c’è, questo è un compito che spetta alle forze dell’ordine. Poi è innegabile che ci siano delle pressioni, delle infiltrazioni, ma quello che volevo dire è che io non ho mai ricevuto minacce, viceversa mi sarei dimesso”.

L’assetto produttivo della città negli ultimi anni ha subito una sorta di stravolgimento sistemico, a partire dalla crisi dilagante del settore agricolo. Un settore in difficoltà in tutta l’area provinciale, con in più la mancanza di acqua per irrigare i campi, dove un consorzio di bonifica fantasma, viene sostituito dai pozzi privati, attraverso l’uso di apposite pompe a prezzi ovviamente esosi. Ma di questa storia non se ne parla in città, sembra che nessuno ne sappia niente, neanche i coltivatori affogati dai costi del loro lavoro…

Una volta esaurito il filone delle speculazioni edilizie, con l’abusivismo selvaggio degli anni d’oro che comunque generò uno sviluppo irregolare del centro urbano, vi è stata, negli ultimi anni, una proliferazione di esercizi commerciali, sproporzionata alle effettive capacità di consumo del tessuto economico. Una espansione che va al di sopra delle reali possibilità di creare reddito e che quindi non si giustifica…

Ma c’è un’altra storia strana, a prima vista, difficile da capire: qui non si fanno più appalti per le opere pubbliche. A sentire il sindaco dimissionario questa sarebbe la riprova che in città non c’è la mafia. Ma prendiamo un esempio a caso, quello della discarica. Negli ultimi due anni sono stati stanziati cinque miliardi, metà dalla Regione e l’altra dallo Stato. Ma i lavori non sono mai stati appaltati, semplicemente perché l’attuale discarica è privata e quindi deve essere pagata a qualcuno a cui si ha interesse a pagare…

“Il nostro è un comune a rischio – sottolinea il sindaco dimmissionario – per la presenza della delinquenza organizzata. Ma qui il mea culpa lo dobbiamo fare in tanti, sia gli amministratori che i cittadini…”

In effetti i cosiddetti ceti sociali produttivi si sono resi colpevoli di fare da serbatoio clientelare all’establishment locale: una volta la concessione edilizia, un’altra volta la licenza commerciale, e via discorrendo… Una complicità perversa, che ha creato un fertile sottobosco. Ci sono attività di interesse collettivo, come la manutenzione del verde pubblico e la nettezza urbana che anziché essere stati appaltati sono stati attivati da ordinanze del sindaco. Il caso della nettezza urbana si è profilato in termini grotteschi, poiché il sindaco aveva incaricato una cooperativa “amica” appena prima di dimettersi, solo dopo le sue dimissioni è stata bandita la gara d’appalto.

“Durante la mia giunta ho fatto delle delibere per le scuole, – continua l’ex sindaco – la sopraelevazione delle aule del 2° e 3° Circolo, ho requisito i locali dell’Esa per adibirli ad aule, ho avviato un piano commerciale per l’aperture di molti negozi.”

Un altro mistero riguarda l’acquisto di un miliardo di automezzi, una parte forniti dalla ditta incaricata, l’altra parte, cioè gli autocompattatori, da un’altra ditta che non ha chiesto di essere remunerata... Sul versante urbanistico, possiamo dire che esiste un piano regolatore approvato nell’anno di grazia 1977. Da allora sono sorte diverse aree abusive e per tre di esse sono stati approntati i piani di recupero da parte della Regione. Al Comune invece è pressoché inesistente una pianta organica, in compenso c’è il blocco dei concorsi e una scopertura di 400 posti. Mancano nell’ordine: netturbini, vigili urbani, ragionieri, ingegneri, architetti… Circolazione della droga ed estorsioni completano il quadro, solo che nel primo caso, le stime ufficiose parlano di 600 tossicodipendenti, ma non esistono centri di recupero, prevenzione, programmazione, nel secondo caso nessuno vuole parlare di estorsioni e pizzo, come se non esistessero.

“Da più parti mi è stato chiesto di formalizzare la crisi; – conclude l’ex sindaco – da parte mia ho cercato di essere un buon sindaco, ho aiutato coloro che mi hanno eletto, ma anche quelli di altri partiti. Ma ad un certo punto mi sono trovato dimissionato. C’è da dire che è praticamente impossibile amministrare in una situazione come quella che mi sono trovato innanzi, dato il lavoro arretrato delle precedenti giunte.”

La festa del santo patrono

Quel giorno Santa Maria Chiarenza era addobbata di tutto punto. Era la festa del santo patrono, una liturgia importante per il paese… La gente in strada appresso al santo sembrava che fosse uscita da uno strano letargo, perché solitamente la sera non c’era nessuno per le strade, per una specie di coprifuoco dovuto alla paura di situazioni delinquenziali… In realtà non era una questione di delinquenza, ma piuttosto di mafia… In piazza del Duomo s’era creato, intanto, una specie di piccolo assembramento spontaneo: “Mizzica, c’è u sindacu…” Gridava qualcuno, e tutti a vedere cosa stesse succedendo. Il sindaco, con quella sua baldanzosa camminata passeggiava con portaborse e vigili urbani, e parlava improvvisando un comizio tra amici… “Ma quale mafia e mafia, qua, cari concittadini, siamo distanti dall’ondata di criminalità che invade la nostra isola… Ogni tanto può succedere qualche situazione di delinquenza, certo, ma che c’entra la mafia… Che siamo a Palermo qui…?”

La festa, così la chiamavano, era davvero un grande evento, tutti facevano finta di essere felici, come se dovesse essere una cosa dovuta… In effetti la festa era tale per i bambini e le ragazzine che potevano girare in gruppi di quattro o cinque senza i genitori, che restavano incollati alla processione… Anche Rosaria quella sera era felice, poteva girovagare con le amichette tra zuccheri filati e commenti nascosti sui ragazzi che si facevano notare impennando con i loro motorini… Sotto i portici della piazza, tra bar e circoli, gli anziani commentavano la processione seduti sulle loro sedie di corda, mentre la società che contava poteva incontrarsi fra strette di mano e pacche sulle spalle…

C’era anche Domenico Russo quella sera per le strade del paese. Ma questa volta non era in divisa come solitamente girava lui, era, come si dice, in borghese. Accanto a lui c’era la sua giovane moglie Claudia, di venticinque anni. Insieme spingevano il passeggino della figlioletta di appena un anno, la piccola Gloria… Domenico era un giovane ufficiale della Guardia di Finanza, vent’otto anni compiuti proprio il giorno prima. Era nato a Padova di padre emigrante salernitano e madre napoletana. Quello era il suo primo incarico da ufficiale, appena trasferito in Sicilia. Era felice di poter fare quel lavoro e di essere insieme alla sua famiglia, si, proprio la sua famiglia. Si sentiva importante Domenico, perché sapeva di avere delle responsabilità, sapeva di fare un lavoro difficile per il bene della collettività. Si sentiva un vero uomo… Domenico era un ragazzo dolce, che riusciva a prendersi cura di un cagnolino con la zampetta spezzata, come di una vecchina per attraversare la strada… Domenico era un ragazzo di cuore a cui piaceva dare alle persone, lui non si tirava mai indietro di fronte alle avversità, era un piccolo grande uomo…

Era dai tempi di Ferdinando II di Borbone che si festeggiava il santo, quando la contea venne divisa in due… Era un paese ricco fin da allora o più che altro la borghesia dell’epoca era molto ricca. Commercianti, possidenti, sensali ne costituivano il tessuto economico. Come tutte le città portuali era un punto d’approdo di traffici più o meno occulti, soprattutto in riferimento all’area levantina del decadente impero ottomano… Forse per questo l’illegalità e la sperequazione si sono tramandate, costituendo un’antropologia criminogena sui generis… Perché quegli uomini che passeggiavano tra i portici delle arcate dei palazzi in piazza del Duomo, che stringevano mani e davano pacche sulle spalle costituivano gli apparti del potere cittadino, che tradizionalmente avevano trovato il modo di atomizzare le proprie posizioni di privilegio… Il potere era in mano alle famiglie, integrate tra le classi medio-alte e che controllano la circolazione delle ricchezze.

Il sindaco continuava a interloquire con i cittadini in attesa dell’arrivo del santo e dei conseguenti fuochi d’artificio, quando si ferma improvvisamente e dice a voce alta: “Minchia c’è u Zu Liu…!” I suoi intendenti richiamavano l’attenzione su questo personaggio estremamente celebre tra quella piccola folla:“Minchia c’è u Zu Liu…!” Il primo cittadino gli si avvicina e lo abbraccia fraternamente… Ma chi era “Zu Liu”? Il rappresentante del clan mafioso vincente che aveva preso il controllo del territorio provinciale. Verrà ucciso da una scarica di lupara sette anni dopo. Immagine suggestiva quella del sindaco che abbraccia il boss del paese… Vicino al boss c’era Gaetano Scandurra, quello che può essere considerato a tutti gli effetti il primo spacciatore del paese… La sua attività criminale era stata inaugurata una decina d’anni prima alla fine della guerra provinciale tra le cosche… Lui apparteneva alla famiglia vincente anche se alle rapine si era sempre dedicato e poi anche alle estorsioni. Pochi anni dopo la guerra, quando la famiglia vincente si stava radicando, fu arrestato nel primo grande blitz della polizia. Da lì il curriculum carcerario di Scandurra si fece sempre più intenso. Entrava ed usciva dal carcere continuamente, per cui in un modo o nell’altro riusciva a gestire il traffico di stupefacenti per conto della famiglia…

Domenico cercava di capire la gente del paese. Certo, aveva sangue del sud nelle vene, però era un ragazzo borghese veneto, cresciuto in mezzo alle abitudini culturali di una terra completamente diversa dalla Sicilia. La sua sorpresa più grande per lui era il significato delle parole; cercava di spiegare a sua moglie, anch’essa padovana, come spesso l’ordine logico delle frasi assumeva un significato opposto a quello della pianura padana… Cioè le parole avevano un sistema di significazione diverso. Per non parlare dei venditori ambulanti delle fiere rionali, lui e sua moglie li visitavano tutti. Erano colpiti anche da quelle feste di paese, dove la processione religiosa diventava un veicolo di festa popolare e raccolta delle anime…

“Andiamo Rosaria, andiamo a mangiarci un arancino – invocavano le amiche – andiamo che ancora ce ne vuole per i fuochi…!” Le ragazzine si dileguarono tra la folla, camminando a passo spedito. C’erano dei ragazzi che volevano vedere senza essere viste… Rosaria era molto graziosa, aveva uno sguardo vispo e bello, malgrado i suoi sedici anni era una donna fatta, procace e seducente… Era una delle più osservate dai suoi coetanei, e non solo… C’era in particolare un ragazzo che s’era invaghito di lei… Fin dal pomeriggio l’aveva seguita… Jano si chiamava, Jano Scuderi, aveva diciotto anni ed era un pupillo di Scandurra. Appena le ragazze si avviarono verso il Cafè Umberto, Jano, in sella al suo boxer, si mise sul loro passo. Le seguiva senza farsi notare, cercando di carpire il momento giusto…

I venditori di calia, semenza e torroni facevano affari d’oro in piazza… Il sindaco continuava le sue passeggiate parlando sempre con un tono di voce alto… U Zu Liu, accompagnato da Gaetano Scandurra, veniva riverito praticamente da tutti, sembrava lui il vero sindaco e forse lo era veramente: “Baciamo le mani Zu Liu, baciamo le mani…!” La sua fama, il Boss, l’aveva acquisita proprio in seguito alla guerra, poiché in paese era il referente della famiglia vincente. Fu lui infatti a sterminare la famiglia concorrente… Prima che andasse al potere, i traffici illeciti in paese, gestiti dalla famiglia perdente, erano praticamente concentrati sui taglieggiamenti. Non esisteva un esercizio che non venisse taglieggiato. Era lo status quo, tanto che non servivano neanche più le minacce, il pizzo al clan era praticamente messo tra i costi fissi, insieme alle tasse, per chi le pagava… Paradossalmente i commercianti avevano più interesse a pagare il pizzo che non l’erario… Una volta arrivato al potere per “Zu Liu” il taglieggiamento era solo una quota minima degli introiti dell’economia mafiosa, perché il business più grande era quello dell’eroina e delle altre droghe psicotrope di massa.

Rosaria insieme alle amiche continuava a girovagare tra la piazza del Duomo e il corso Umberto, in una sera piena di folla e di gioia… Jano, nel frattempo aveva già piazzato una decina di stecche da diecimila lire di marijuana, e di questo era contento, anche perché aveva ricevuto già i complimenti di Scandurra. Via delle Calcare era una perpendicolare di via Umberto che arrivava direttamente alla chiesa del Duomo… Rosaria si staccò dalle amiche e percorse quella strada. Jano la seguiva senza farsi scoprire, fino a quando accelerava il boxer blu per bloccare la ragazza. E così fece. “Che vuoi, tu…? Chi ti conosce…? Vattene!” Intanto il ragazzo aveva già messo il boxer sul cavalletto e si accingeva a proiettarsi verso la giovane.

“Minchia che schizzinosa che sei…?”
“Lassami stari… Guarda che chiamo a mio padre…!”
“E perché? Che ti sto facendo qualche cosa io? Un bacio, solo un bacio voglio da te!”
“Tu si pazzu! Vatinni! Vatinni!”

Il ragazzo la cingeva col braccio destro da dietro, prendendola per i seni; sembrava davvero impazzito. Rosaria riusciva a dargli una gomitata, costringendolo a mollare la presa. Poi si diede alla fuga. Corse qualche metro ma Jano la riprese. Proprio in quel momento entrava in quella strada Domenico con la sua famiglia, anche lui da via delle Calcare stava tagliando la piazza, dall’altro lato però, per andare a mangiare gli arancini al Cafè Umberto. Domenico sentì le urla della ragazza, che chiedeva di lasciarla in pace. “Che succede….? Che succede laggiù…?” Urlava il finanziere. Finchè lasciava la carrozzina per andare in soccorso di Rosaria. Prese il ragazzo per un braccio e gli ordinò di fermarsi. Jano cercava di difendersi alla meno peggio, ma per Domenico il ragazzo era una piuma. Nel frattempo Rosaria era già scappata, andando a cercare disperatamente i suoi genitori dietro la processione. Quando Jano si ammansì Domenico lo lasciò… Il viso del ragazzo si tinse di odio…

“Ma tu cu cazzu si? Picchi non ti fai i cazzi to…?”
“Sono della guardia di finanza, e ora vattene prima che ci ripensi…”
“Minni vaiu, minni vaiu…”

Dietro quel “me ne vado” Jano però nascondeva il significato opposto, quel significato opposto delle parole che da sempre aveva destabilizzato il modo di pensare del giovane finanziere padovano. Infatti così fu. In sella al suo boxer Jano percorse la via Umberto in senso vietato. Aggirò immediatamente la piazza del Duomo. Era nervosissimo. Cercava con insistenza i suoi boss. Covava una vendetta feroce. Era assolutamente impazzito. Li trovò innanzi al circolo della caccia. Scandurra parlottava di donne con un suo uomo, con la solita volgarità che lo contraddistingueva. Zu Liu, accanto a lui parlava a mezze parole con un consigliere comunale della maggioranza, uno che cominciava a palesare l’intenzione di far fuori politicamente il sindaco. Appena Scandurra vide il ragazzo, non si rese subito conto che era stravolto dalla rabbia, quindi lo chiamò prendendolo in giro: “Giuvine, a si ancora cagniolo…” Sei ancora un cagnolino voleva dirgli, ma in termini dispregiativi…

“Fighiu di buttana” Urlò Jano rivolgendosi a Scandurra, il quale un po’ spaventato rispose: “Minchi, Jano, ti sei offeso… Ma io schezzavo….!”
“Figghiu di buttana!” Riprese Jano “è un figghiu di buttana… Ma no tu…” Jano raccontò la storia, soffermandosi sull’affronto che aveva subito. Scandurra si arrabbiò molto… “Zu Liu, l’aviti sentita sta storia…?” Il Boss volle capire bene di chi si trattava, e quando capì che si trattava dello sbirro del nord, diede il benestare: “Trovici na pistola o carusu…!” E Scandurrà obbedì. Disse al ragazzo di aspettarlo lì per mezzora circa e si allontanò tempestivamente. Tornò come promesso e chiamò il ragazzo con se. Lo portò in auto e gli diede una pistola: “Ammazzulu a du bastardu!”.

Mezzanotte circa. Il santo stava ormai per affacciarsi in piazza del Duomo. Aveva già percorso quasi del tutto corso Umberto. L’intero paese era riversato nella piazza. Jano è sempre in sella al suo motorino, ha una pistola con se che sa usare e che è intenzionato ad usare. Cerca quel giovane finanziere che ha difeso la ragazza che lui voleva baciare, e che ha reso innocuo il suo sfoggio di virilità… Domenico, con la sua famiglia e lì, appresso al santo, che mastica noccioline e sorride alla vita, vicino all’amore suo Claudia… E’ ignaro Domenico, non sa che un pazzo vuole ammazzarlo… Il santo entra nella piazza e Domenico si sposta dentro le arcate per paura che vengano schiacciati dalla folla. Si mettono lì di fronte all’ingresso del bar del Duomo, e aspettano di assistere ai fuochi, anche perché casualmente quello era risultato un buon posto per la visione dello spettacolo. La cosa paradossale, che Domenico non poteva sapere, è che quel posto era ottimamente posizionato anche per essere avvistati da qualcuno che ti cerca in mezzo alla folla… E così fu… Il ragazzo si mise un passamontagna fece qualche metro, arrivò alle spalle del finanziere, che non ebbe il tempo di rendersi conto di nulla: un braccio sul collo e la pistola su un fianco. Sparò tre colpi col silenziatore. Sembrava una esecuzione fatta da un professionista del crimine. Tra la confusione generale si allontanò sentendo alle spalle le urla della moglie nel vedere il marito insanguinato cadere per terra… Così era morto un ragazzo felice di vivere e di fare il finanziere in una lontana terra di Sicilia. Così venne avviato al crimine professionista un ragazzo di diciotto anni che non riusciva a trattenersi dal baciare una ragazza… I fuochi d’artificio non smettevano di esplodere…

L'intifada catanese

2 marzo 2007

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È un compito assai complesso “raccontare” una città immersa nel mondo contemporaneo, poiché le variabili che si intrecciano hanno un sapore inestricabile. Già, si dovrebbe partire dalla dimensione della società globale, prodotto della sintesi tra mezzi e merci, tipica appunto del nostro tempo.
Oppure si potrebbe parlare dell’assenza come suo concetto fondante: assenza di certezze, spesso di diritti, assenza di valori, ma anche di identità collettiva, assenza di regole condivise, ma anche di limiti, poiché attraverso il prevalere della quantità sulla qualità tutto è concesso...
O, ancora, si potrebbe tirare fuori il vecchio, ma sempre attuale, ragionamento sulle mete da raggiungere: ricchezza, successo, benessere, insomma, che nella realtà non sono concessi a tutti.

Beh, certo, queste sono tutte variabili che possono permettere di raccontare una città del nostro tempo, ma non una città in terra di Sicilia... Qui le variabili sono altre... Quando le immagini della piccola intifada catanese hanno raggiunto tutto il mondo, un moto di rabbia, collera, indignazione, ha colpito i cuori di tutti gli esseri umani civilizzati. Tutti abbiamo ricevuto una piccola scossa dopo aver osservato le immagini di una rivolta urbana a sfondo calcistico, nel corso della quale un uomo veniva ucciso. Tutti, dicevamo, tranne una parte della città stessa. Ma è possibile che una parte della città sia rimasta indifferente? Ecco, forse abbiamo trovato la variabile che ci serviva per raccontare la nostra storia...

Chi è siciliano o ha vissuto in terra di mafia a questa osservazione potrebbe rispondere che in una città dove si spara e si ammazza frequentemente diventa facile l’indifferenza alla barbarie. Sì, ma qui la cosa è più sottile perché a morire non era un mafioso ma un poliziotto. «Sbirri bastaddi, vannu ammazzari a tutti pari...!» (vi devono uccidere tutti) così esordiva il custode dello stadio Massimino di Catania prima di essere arrestato... Sì, perché il custode, insieme alla sua famiglia, “custodivano”, prima che la struttura pubblica, armamentari vari per i “clan” degli ultrà... Filippo Raciti, insomma, non era un uomo bensì uno sbirro, e sembra quasi una ridefinizione dei paradigmi sciasciani de Il giorno della civetta... La mattina dopo la guerriglia, in piazza Spedini, davanti allo stadio, come se nulla fosse successo, c’era il mercatino rionale; uomini e donne tra una bancarella e l’altra facevano le loro compere... Nel frattempo le strade della città si coloravano a festa per la patrona, sant’Agata. Festa vissuta in modo mesto da quella parte della cittadinanza indifferente, non perché un uomo era stato ucciso ma perché i fuochi d’artificio erano stati annullati... «Non è come gli altri anni,» continuavano a ripetere le persone per strada «mancano i fuochi...».

Cos’è dunque che nasconde questa indifferenza? Nei primi anni Ottanta, il sociologo Raimondo Catanzaro scriveva nel saggio Il delitto come impresa. Storia sociale della mafia che ciò che contraddistingue il siciliano è la sua voluttà epidermica nell’aggirare le regole. Negli stessi anni Pippo Fava, il più grande giornalista isolano, ucciso dal clan Santapaola, sottolineava provocatoriamente che «noi siciliani siamo tutti mafiosi». Cose antiche e secolari queste, certo, su cui si è potuta costruire la cultura mafiosa, che appartiene a tutti i livelli della stratificazione sociale. Sciascia, prima di morire, diceva che per risolvere i problemi della Sicilia basta una cosa semplice (ma impossibile, aggiungiamo noi): l’affermazione dello stato di diritto... E, allora, lo “sbirro” chi è, se non l’esecutore dello stato di diritto, cioè l’esecutore di una cosa impossibile da realizzare... Uno degli slogan tra i più cantati dagli ultrà che hanno dato vita alla piccola intifada rossoazzurra era il seguente: «Son contento solo se vedo morire uno sbirro, calci e pugni nella schiena, tanto a noi non ci fai pena».

Certo c'è da dire che dopo i fatti del G8 di Genova, che hanno scoperchiato un apparato di sicurezza eticamente corrotto, la fiducia nelle forze dell'ordine italiane è molto blanda, perché in questo paese senza accorgertene ti può capitare di tutto. Ma al di là di questo la vicenda dell'intifada catanese è una chiave di lettura antropologica di questo territorio mafioso. Per cui ci sono delle domande retoriche che diventa difficile non farsi...

Chi deve essere portatore dello stato di diritto? Le istituzioni in primo luogo. Ma quali istituzioni? Quelle che hanno generato quartieri come Librino? Perché è da lì che arrivavano i giovani assassini dell’ispettore Raciti. Già, Librino, il quartiere che sta proprio alle spalle dell’areoporto... Ogni italiano almeno una volta nella vita dovrebbe andarci in un quartiere come quello, per vergognarsi di essere italiano... E dire che era stato progettato da Kenzo Tange, alla fine degli anni Sessanta. Spazi verdi, infrastutture per i giovani e gli anziani, abitazioni e luoghi rispettosi della sostenibilità urbana. Era un progetto modello. Poi le istituzioni hanno costruito chilometri di palazzoni, dimenticando tutto il resto, in molti casi scordandosi perfino degli scarichi fognari... Da modello a spettro della cultura mafiosa, dove posizionare quella fetta di popolazione senza diritti, nel senso proprio del termine... Una riproposizione della cittadinanza passiva che vigeva in Europa fino al XIX secolo. Una riproposizione, è ovvio, poiché questi cittadini hanno il diritto di voto, possono cioè eleggere i loro rappresentanti nelle istituzioni...

 Giuseppe Arena è uno degli astri nascenti di Alleanza Nazionale in città. Quando entra allo stadio saluta con le pacche sulle spalle chiunque si avvicini... Qualche bacio e la celebre frase: «Tutto apposto...?». Chi ci parla di lui, sicuramente un “detrattore”, ci dice che è il classico “parolaio”, cioè uno che parla, uno che promette mari e monti... Arena, astro nascente di An in città, è il vicesindaco di Umberto Scapagnini, il medico personale di Berlusconi, secondo cui il Cavaliere sarebbe potenzialmente immortale, ma questa è un’altra storia... U sinnacu, ormai al secondo mandato, è un personaggio sui generis: vecchio massone, ex craxiano, passato alle cronache per le sue amanti sudamericane... U sinnacu, anzichè interrompere la festa di sant’Agata per lutto cittadino, ha voluto lamentarsi della “manipolazione” dei dati de Il Sole 24 Ore, che, nella graduatoria di vivibilità delle città italiane, assegnava l’ultimo posto alla comunità da lui amministrata. Ma torniamo ad Arena. Perché, se si vanno a scorrere le deleghe degli assessori comunali, si scopre che il giovane leone di An e vicesindaco, ha la delega al “Catania Calcio”. Sì, proprio così; per quanto possa sembrare una barzelletta, è proprio così... Domanda un po’ ingenua: ma politicamente a che serve una delega al Catania Calcio?

 Medioevo prossimo venturo scriveva Roberto Vacca negli anni Settanta, preconizzando per il nuovo secolo un ritorno della società all’oscurantismo. Ma in Sicilia il feudalesimo, in altre forme da quello medievale, è più che mai un modus vivendi... È feudalesimo una scuola elementare, sempre a Librino, che deve chiudere perché il Comune non ha pagato l’Enel. È feudalesimo la sassaiola a una macchina della polizia che, ancora a Librino, cerca di arrestare uno spacciatore. È feudalesimo il potere culturale, sociale ed economico dei clan mafiosi su tutto il territorio. È feudalesimo il fatto che dei ragazzini possano essere allevati dalla mafia per fare i killer. È feudalesimo un salario di trecento euro al mese, per otto ore di lavoro al giorno, “concesso” alle commesse dei negozi, così come ai praticanti commercialisti. È feudalesimo la sudditanza dei cittadini sia passivi che attivi (la borghesia) nei confronti del politico di turno per un posto di lavoro... Già la borghesia, ribattezzata qualche tempo fa da Piero Grasso, coordinatore nazionale antimafia, borghesia mafiosa, cioè quella che proprio sull’assenza dello stato di diritto prospera... Anche la borghesia mafiosa è naturalmente rimasta scontenta che i fuochi di sant’Agata non siano stati esplosi, quella borghesia che, insieme ai giovani di Librino, urlano allo stadio che il poliziotto è il “primo nemico”. Perché anche questo succede...

A chi il dovere di difendere lo stato di diritto, dunque, in una città dove i significati della civiltà alfabeta, per dirla alla McLuhan, sono stati invertiti? È difficile contestualizzare un concetto come questo all’interno della dimensione dello stadio, anche perché esso è un porto franco, dove, a prescindere dalla partita di calcio, è possibile esprimere al massimo della furia i significati invertiti del senso di appartenenza: no alle leggi, morte allo sbirro... Anche qui siamo di fronte a una ridefinizione storica, quella dell’antica Roma, dove la violenza e la morte messa in scena dai gladiatori era lo spettacolo della comunità sociale. Lo stadio ribalta le parti poiché gli spalti diventano un luogo autonomo dall’evento sportivo. Lì, allo stadio, per definizione, non esistono leggi: le armi per la guerriglia possono essere ben nascoste prima della partita, anche perché il custode è “cosa nostra”. Chi normalmente andava allo stadio Massimino di Catania sapeva che gli ultrà, giorni prima della partita, nascondevano lì dentro le loro armi dal sapore medievale, perché la struttura è sempre aperta...

 Se questa è la realtà, è mai possibile che un magistrato o la polizia stessa o anche la società Catania Calcio, non abbiano mai pensato di intervenire per prevenire? Ci sono particolari che, seppure di poca importanza nel contesto generale, rimangono un po’ inquietanti, come ad esempio chi e perché ha assegnato quel posto di lavoro al custode ultrà... Così come alcuni quesiti, anche questi forse di poca importanza, rimangono senza risposta... Non si poteva immaginare che lasciare aperto lo stadio senza controlli avrebbe costituito un potenziale pericolo? Il mercatino, dopo l’infausta notte, non si poteva evitare di farlo svolgere...? La festa di sant’Agata non si poteva sospendere? Piccole cose... Però rimane la certezza che queste piccole cose sarebbero state fatte in tutte quelle città che possono essere raccontate attraverso le variabili del nostro tempo storico, dove, malgrado il caos epocale, vige lo stato di diritto...

SOLO ANDATA PER L’INFERNO
Percezione straniero

Individuare un possibile punto di partenza per poter ragionare sugli esodi dal terzo al primo mondo, non è certo semplice, una proposta potrebbe essere quella di partire dal concetto di percezione sociale. Perché sembra che l’opinione pubblica non possiede una precisa cognizione di ciò che succede a quelle persone „diverse da loro“ che incontrano per le strade o sull’autobus o al supermercato o ancora sullo stesso pianerottolo. E questo, oggi, diventa uno dei temi centrali sull’inclusione sociale nel nostro paese. Anche perché l’impoverimento diffuso delle condizioni di vita dei cittadini italiani aumenta le fratture nei confronti di chi proviene da altri paesi.

C’è da dire che l’iconografia del continente africano riporta alla mente lo stereotipo della fame nel mondo. Si, perché il tema della scarsità di risorse, non riguarda la maggioranza delle persone „dalla pelle scura“ che incontriamo sull’autobus o sul pianerottolo. Molte di quelle persone, sembrerà strano, arrivano da paesi dove le risorse ci sono. La Nigeria ad esempio, è il sesto paese al mondo produttore di petrolio, ma lì non c’è benzina a basso costo, dato che il Paese dipende dall'estero per gli approvvigionamenti di carburante, e i proventi delle ricchezze prodotte dall’estrazione petrolifera rimangono nelle mani delle gerarchie governative.

In Nigeria c’è una delle più grandi diaspore del nostro tempo. 150 milioni di abitanti, 400 etnie, una miriade di lingue diverse fanno da contorno allo scontro tra ceppi etnico-religiosi: a nord regna la sharia e a sud il cristianesimo. Ma c’è anche la violenta ribellione del Mend, gruppo armato del Delta, contro le grandi compagnie petrolifere, che hanno annientato l’ecosistema per l’assenza dei meccanismi di sicurezza degli impianti, trasformando in deserti paludosi interi villaggi, dove pesca e agricoltura rappresentavano il sostentamento per migliaia di persone. E che dire del raket di Benin City, dove violenza, riti wodoo, superstizioni, sono gli strumenti per la riduzione in schiavitù per migliaia di ragazze. E che dire della classe politica nigeriana, che fa della corruzione e della violenza la sua ragion d’essere, come alle ultime elezioni, dove i partiti che gareggiavano assoldavano bande armate contro la popolazione.

La fuga da un paese come questo, riporta alla Convenzione di Ginevra del 1951, dove viene sancito l’obbligo dei paesi all’ospitalità per chi rischia l’incolumità fisica per motivi religiosi, etnici, politici. Quale significato allora è possibile dare al concetto di inclusione sociale, se questa è percepita come una minaccia per il mio mancato benessere? Ecco, forse è proprio questo il punto: lo stretto rapporto tra percezione sociale, senza conoscenza, e insicurezza innesca l‘ancestrale fobia.

C’è dunque una frattura a livello simbolico tra inclusione ed esclusione sociale di cui il sistema mediatico nè è sicuramente la cassa di risonanza. Se pensiamo che in pochissimi anni le città italiane, soprattutto a causa delle spinte neotribali del continente africano, ma non solo, sono state „travolte“ progressivamente da esodi, dove interi popoli vengono perseguitati, questo ha generato una trasformazione della morfologia sociale stessa delle città, dove persiste una mancata visione del modo in cui i territori devono rispondere a queste trasformazioni.

L’assenza di strategie territoriali, rappresenta quindi la causa originaria di tutti i problemi legati all’inclusione sociale poiché fisiologicamente dove c’è un’assenza di pianificazione territoriale emarginazione, violenza ed esasperazione sociale implodono nel territorio stesso. Se a questo si aggiunge la stereotipia creata sull‘equazione tra straniero e deviante, diventa semplice trasferire l’assenza“ della dimensione pubblica nella dimensione privata. 

La ragazza di Benin City

“Le ragazze di Benin City. La tratta delle nuove schiave dalla Nigeria ai marciapiedi d'Italia” è un libro scritto nel 2007 da Laura Maragnani, che ha fatto luce su una delle mostruosità più aberranti dell’ultimo decennio, cioè la riduzione in schiavitù delle ragazze di Benin City, una delle più grandi città della Nigeria. Vengono fatte prostituire in Italia, da parte di vere e proprie organizzazioni mafiose nigeriane, ben radicate sul territorio della penisola. La storia che presentiamo riguarda una di queste ragazze e l’abbiamo raccolta nel 2011 a Bologna.

Il tempo capovolto
A Benin City,  in Nigeria,  sembra che il tempo si sia capovolto. Due milioni e mezzo di abitanti e le sue strade sono decadenti, sporche e piene di buche. Le case sono simili a baracche. La vita qui costa poco e non vale quasi niente. Bastano pochi spiccioli per mangiare il solito piatto di riso e pesce secco. Ma per pochi spiccioli una famiglia può anche “vendere” il proprio bimbo come domestico nelle case di chi sta un  meglio.

Ogni notte vado sulla strada per pagarmi la libertà. Vogliono cinquantamila euro, è questo il debito che ho con loro. Sono tre anni che faccio questa vita e sono riuscita a restituirgliene solo ventimila, chissà quanto tempo dovrà passare prima che questo incubo finisca. Mi avevano detto che avrei trovato un lavoro onesto, che così potevo aiutare i miei, e invece si sono presi la mia vita.

La mafia controlla la mia famiglia
Di lavoro a Benin City non ce n’è ed è difficile capire come la gente riesca a cavarsela. C’è sempre un gran via vai di persone in strada, nei mercati, ovunque. Una miriade di attività informali.  Ma di lavoro vero e proprio, poco o nulla. Al contempo però in città convivono simboli di ricchezza e sviluppo: fuoristrada americani ultimo modello, campi da golf con il prato all’inglese, ville sontuose protette come fortezze.

L’altra notte un cliente gentile mi ha detto che potrei uscire da tutto questo, ma non è così semplice. La mafia controlla la mia famiglia e se non gli restituisco i soldi fanno del male a mio padre e a mia madre. Io non voglio problemi, loro sono potenti, controllano tutto. Sono cattivi. Ogni tanto mi picchiano, mi dicono che devo restituirgli i soldi e finchè non lo faccio appartengo a loro.

Giurare obbedienza
Camminando per le strade si sente una cruenta fame di danaro e questo si percepisce in tutte le dimensioni sociali: chi può procurarsi danaro con qualsiasi mezzo sembra legittimato a farlo, poiché le istituzioni pubbliche stesse lo fanno al di fuori di qualsiasi regola e rispetto umano.

Quando sono arrivata in Italia hanno fatto il rito ju ju a me e ad altre due ragazze. Hanno preso le mie mutandine dove c’era del sangue mestruale, poi mi hanno tagliato una ciocca di capelli e hanno mischiato tutto. Lo stregone ci ha fatto bere un liquido disgustoso, facendoci giurare che avremmo sempre obbedito, se no la mala sorte avrebbe colpito le nostre famiglie.

Non risultavano i conti
C’è tanta voglia di scappare, ecco perché i cybercafé, sono ovunque affollati di giovani. È il business che va per la maggiore. Alcuni cercano una scuola o un lavoro all’estero; le ragazze chattano con “fidanzati” che sperano di raggiungere in Europa. Altri si sono specializzati in truffe telematiche. Tutti paiono proiettati verso l’estero, il paradiso immaginato, inseguito, voluto a ogni costo.

L’altra notte ad una mia amica le hanno dato tante botte. Piangeva, piangeva tanto, voleva andare all’ospedale  ma non ce l’hanno portata per non avere problemi. Non risultavano i conti, i preservativi non corrispondevano ai soldi che ha dato, mancavano trenta euro. Lei ha spiegato che l’aveva perso.

La morte come pensiero permanente
Ma cosa vuol dire scappare da un contesto come questo? Forse ritrovare la dignità di esseri umani, dignità rubata dai governi corrotti e violenti, con cui gli stati evoluti fanno affari, rubata dalle grandi holding petrolifere occidentali, che hanno saccheggiato la Nigeria. Allora com’è possibile che in uno dei più grandi paesi produttori di petrolio ci siano pochissimi ricchi e tantissimi poveri…? Benin City è proprio questa.

Come vedo la mia vita? Sarebbe bello un giorno avere un marito italiano che mi vuole bene e mi porta via da tutto questo. Sarebbe bello poter crescere dei figli e riuscire ad aiutare la mia famiglia. Ma certe volte ho un brutto pensiero,  penso di stare per morire e che questo è solo un sogno irraggiungibile.

L'inferno nigeriano

Boko Haram è una organizzazione fondamentalista musulmana sunnita. Il suo nome in lingua hausa significa “l’educazione occidentale è peccato”; essa è divisa in fazioni ed è diventata nota in seguito alla recrudescenza della violenza religiosa nel 2009 contro i cristiani e le loro chiese. Nata nel 2002 per opera dell’imam Mohammed Yusuf nella città di Maiduguri, capitale dello stato del Borno, nel nord-est del Paese, Boko Haram mira alla creazione di uno stato islamico in Nigeria, all’imposizione della Sharia nella sua interpretazione più radicale e ad un’interpretazione letterale del Corano.

C’è da dire che non sono ben chiari i rapporti con il resto del movimento jiadista, presente in Africa e Medio Oriente, anche se negli ultimi mesi sembra che sia stato stretto un legame con le reti presenti in Mali, tanto da auspicare, da parte del Presidente nigeriano Goodluck Jonathan, l’intervento francese per reprimere la ramificazione dell’organizzazione, dove sembra essere inserita nel traffico di droga, funzionale a far cassa. Il governo nigeriano ha tentato di smantellare l’organizzazione nel 2009 con l’arresto e morte di Yusuf. Il successore, Abubakar bin Muhammad Shekau, più radicale, ha sviluppato l’organizzazione dal punto di vista militare, attraverso nuovi obiettivi: le infrastrutture governative.

I loro attacchi sono principalmente rivolti, oltre che contro le chiese, contro le scuole, tanto che nel 2012 circa 10000 alunni della città di Maiduguri sono stati costretti ad abbandonare l’istruzione, poiché bisogna anche considerare che in Nigeria tutti i diritti fondamentali sono difficilmente garantiti, quindi se una scuola viene distrutta non vi è la possibilità di costruirne un'altra o di spostare gli alunni da qualche altra parte… In questo senso la sua strategia jiadista si differenzia dalle altre grandi organizzazioni territoriali come al-Qaeda o Al Shabab. Le azioni eclatanti sono state rivolte contro il quartier generale della polizia nella capitale federale Abuja, nel giugno 2011, e due mesi dopo alla sede dell’Onu nella stessa città.

L’ultimo evento luttuoso, in larga scala, è di questi giorni con l'assalto al carcere della città di Bama, nel nord est del paese, liberando 105 detenuti. Inoltre hanno dato alle fiamme alloggiamenti militari, una stazione di polizia, edifici governativi, causando una strage. Sono rimasti uccisi 22 poliziotti, 14 guardie carcerarie, due soldati, quattro civili e 13 fondamentalisti.

Boko Haram è fondamentalmente diviso in fazioni, sembra che siano tre quelle certe, che agiscono spesso autonomamente, per cui se qualcuno lancia messaggi all’esterno ciò non vuol dire che parli a nome di tutta l’organizzazione. In tal senso non si comprende bene il sistema organizzativo interno, a partire dalla catena di comando. Ecco perché diventa difficile da parte delle autorità nigeriane, instaurare un possibile dialogo, anche se c’è da dire che neanche il governo nutre di attendibilità visto che le forze dell’ordine sono spesso autonome dalle direttive governative, diventando protagonisti di innumerevoli violazioni dei diritti umani, che contribuiscono ad alimentare sfiducia nelle istituzioni.

Negli ultimi tempi una delle fazioni di Boko Haram si è specializzata nel rapimento di ostaggi per finanziare l’organizzazione, si chiama Ansaru, e i suoi leader hanno dichiarato la loro vicinanza ad altri movimenti jiadisti come Aqmi attivo, appunto, nel nord del Mali. Una delle loro vittime fu proprio Silvano Trevisan, rapito insieme ad altri sei ostaggi e ucciso lo scorso anno, per motivi ufficialmente legati ad una sorta di ritorsione contro i paesi europei presenti in Mali e Afganistan. In un video uno dei presunti leader di questa fazione ha anche dichiarato di prendere le distanze dalla disumanità delle azioni di Boko Haram perché coinvolge anche la comunità musulmana moderata.
Il radicamento dell’organizzazione affonda nel contesto locale della Nigeria del nord. Un’area in cui il rifiuto dell’autorità centrale ha radici storiche, individuabili anche nei contrasti per il controllo del petrolio. Gli abitanti delle regioni settentrionali si considerano svantaggiati proprio per l’alto tasso di corruzione del sistema politico, che non permette alla popolazione di beneficiare delle risorse dello stato africano più popoloso, il quarto esportatore di petrolio, uno dei più poveri del mondo, dal punto di vista della popolazione.

C’è da dire che il mistero sulla effettiva catena di comando sembra nascondere legami e sostegni ambigui con alcuni centri del potere politico nel nord. C’è una inchiesta, ad esempio, su due senatori del People Democratic Party, il partito di governo, Ahmed Zanna e Mohammed Ali Ndume o voci sull’ex dittatore Ibrahim Babangida, che si difende accusando di complotto il Presidente in carica. C’è una tradizione da parte dei gruppi di potere del nord, di supportare l’instabilità, come il sostegno al Mend, il movimento di emancipazione nella regione petrolifera del Delta. Ciò che è sicuro è che l’autorità del capo dello Stato in carica è vacillante, considerate anche le guerre di posiszione all’interno delle istituzioni in vista delle nuove elezioni del 2015, anche se, come la storia insegna, le elezioni in Nigeria si vincono con intimidazioni, violenza organizzata e brogli.

Il nuovo “ratto delle sabine” che lascia indifferente l’Italia

La storia che stiamo per raccontare è di quelle che mette i brividi sulla schiena e non solo per l’agghiacciante brutalità del fatto, ma anche perché nella stampa italiana è stata trattata secondo le normali prassi: l’articolo del giorno e domani passiamo ad altro… Non un approfondimento televisivo, non un dibattito sul paese in questione o sull’inerzia dell’occidente, non una parola sulle donne offese e brutalizzate di questa storia, come se i problemi di genere e la violenza sulle donne fosse legittimo parlarne solo rispetto a quello che accade in Italia…

Era la notte tra il 14 e 15 aprile scorso, in una scuola superiore della città di Chibok, Stato del Borno, nel nord est della Nigeria. Le ragazze stanno dormendo quando il dormitorio della scuola viene preso d’assalto da un commando del gruppo oltranzista islamico Boko Haran. Forse, insieme ad Al-Shabbah, che opera in Somalia e in Kenia, è l’organizzazione jihadista più violenta, non fosse altro perché prioritariamente prende di mira le scuole, dandogli a fuoco, uccidendo insegnanti e studenti. I motivi stanno nel nome stesso dell’organizzazione cioè: “l’educazione occidentale è proibita”.

Ma in quella notte di aprile viene compiuto un salto di qualità nella strategia del terrore che questa organizzazione ormai semina da anni nel nord del paese,  che poi è la parte più povera, poiché i proventi dell’estrazione del petrolio sono gestite da “oligarchi” del sud cristiano, in partnership con le grandi compagnie europee e americane.

Quella notte 276 ragazze tra i 15 e i 18 anni vengono fatte salire su dei camion e rapite. Durante il tragitto 53 di esse riescono a scappare, per un guasto al motore che costringe la vettura a fermarsi. Alcune di loro hanno raccontato la dinamica dell’assalto, al giornale nigeriano “The Punch”: "Sono entrati nella nostra scuola e ci hanno fatto credere che erano soldati, indossavano divise militari: quando abbiamo scoperto la verità era troppo tardi e non abbiamo potuto fare molto. Gridavano, erano maleducati. Ecco perché  abbiamo capito che erano ribelli. Poi hanno cominciato a sparare e hanno appiccato il fuoco alla scuola. Hanno anche sparato alle guardie armate di protezione della scuola". Amina e Thabita poi si sono soffermate sulla fuga: "Il nostro veicolo aveva un problema e si è dovuto fermare. Ne abbiamo approfittato per cominciare a correre e ci siamo nascoste nei cespugli…”  Le notizie che si succedono, nel frattempo sono inquietanti, perché le ragazze dovrebbero essere state deportate in altri paesi africani limitrofi, dove i terroristi hanno forti insediamenti: Camerun e Ciad.

Dopo due settimane di angoscia delle famiglie, e varie manifestazioni di piazza, dove le madri hanno manifestato la loro rabbia e protestato contro le istituzioni nigeriane per la liberazione delle figlie, è arrivata la doccia fredda. Boko Haran, attraverso le parole del proprio leader, Abubakar Shekau, ha fatto pervenire un video, dove si annuncia che un parte delle giovani sarebbero state vendute come schiave al prezzo di 12 dollari, mentre un’altra parte sarebbero state costrette a sposarsi con la forza.

Quest’ultimo atto è tanto aberrante quanto le motivazioni che ne stanno alla base, che risalgono ad una filosofia jihadista chiamata “Jihad Al-Nikah” o più comunemente “Sex-jihad fatwa”, nata all’interno della comunità sunnita, che individua il ruolo delle donne, nel processo di costituzione dello Stato islamico, come confort sessuali dei guerrieri che combattono per la jihad. Nella filosofia sunnita la donna sceglie volontariamente questo ruolo, mentre per i Boko Haran, sunniti anch’essi, la costrizione equivale alla volontarietà.

Solo dopo l'uscita del video il Presidente nigeriano Goodluck Jonathan, ha ammesso l’incredibile accadimento, chiedendo ufficialmente agli Stati Uniti un supporto per liberare le ragazze. C’è da dire che questo folcloristico personaggio, di religione cristiana, è il prodotto di una oligarchia di potere che gestisce la sua autorità in modo corrotto e manipolatorio, in un paese che rappresenta il colosso africano sia per dimensioni che per capacità produttiva, visto che è il primo esportatore di petrolio, che viene però raffinato negli Stati Uniti, per ritornare in Nigeria a prezzi triplicati.

In questa federazione di 36 Stati, 160 milioni di abitanti, 250 gruppi etnici, con un nord povero e musulmano (i tre quarti della popolazione vivono al di sotto della soglia di povertà), e un sud più ricco e cristiano, dove al saccheggio delle risorse e alla rovina dell’eco sistema di diversi villaggi (Eni e Shell hanno per anni estratto il petrolio senza sistemi di sicurezza), hanno assiduamente partecipato le grandi potenze occidentali.

In un paese così esistono vari livelli di aberrazione criminale, come quello legato alle organizzazioni mafiose nigeriane, che attraverso riti religiosi, ricatti e minacce alle famiglie deportano le ragazze in Europa per farle prostituire. E poi c’è il Mend, Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger, dove sono appunto concentrati i pozzi di petrolio, i cui guerriglieri rapiscono solitamente i dipendenti  europei delle grandi compagnie  a scopo di riscatto economico, dato che rivendicano i proventi del petrolio per il popolo del Delta.
Da un paese così scappano migliaia di persone per chiedere la protezione internazionale a quegli stati occidentali che hanno contribuito a massacrare la Nigeria, gli stessi stati che lamentano l’invasione degli emigranti africani, i quali, ad esempio,  hanno il torto di togliere il lavoro agli italiani…

Un paese così non merita neanche un approfondimento in un telegiornale. Un paese così non merita neanche qualche post su facebook da parte di quelle donne che fanno le sacrosante battaglie sulla violenza di genere… Tutto questo è davvero molto triste…!


IN DUE GIORNI UNA VITA
La vera storia di una fuga, nel quadro della guerra civile ivoriana

In viaggio tra rimorsi e pianto

Erano le tre del mattino e mezz'ora dopo l'aereo della Royal Air Maroc avrebbe decollato. L'aereoporto Senou di Bamako era ancora stranamente affollato a quell'ora. Christelle non riusciva a stare ferma. Si alzava e si sedeva continuamente nell'attesa di imbarcarsi. Aveva gli occhi stanchi e pieni di paura. L'uomo che l'accompagnava, Monsieur Kaschi, era quello che le aveva fornito il biglietto aereo ed un passaporto falso, pagati con soldi ivoriani, cioè franchi cosiddetti CFA. L'avrebbe accompagnata fino a Bologna al fine di riprendersi il passaporto. Ma era davvero sola, adesso. I suoi vent’anni vissuti spensieratamente chissà come avrebbero retto a tutto quello che le stava succedendo. La sua mente in quel momento era concentrata a pregare Dio che le salvasse la madre da quel brutto male che in Mali non poteva curare. Aveva voglia di piangere ma non aveva neanche la forza per farlo. Sua madre stava morendo senza di lei e il padre gli era stato ammazzato un paio di mesi prima dagli ex ribelli del Nord. Era sola adesso.

Appena entrata in aereo Christelle si affidò a monsieur Kaschi per individuare i posti a loro assegnati: “E' questo il tuo, 71 A, proprio accanto al finestrino”. Il suo sguardo era assente, sembrava che si trovasse in una stanza piena di fantasmi che gli volavano intorno. Il suo bellissimo viso, dolce e delicato, pareva vittima di un trauma interiore di cui ancora non era pienamente cosciente. Tutti i passeggeri intanto avevano preso posto e l'aereo cominciava le prime manovre di accensione. La rotta era Bamako-Bologna, con scalo a Casablanca. Dalla carta d'imbarco, che continuava a tenere in mano, leggeva continuamente gli orari di volo: alle 6,55 sarebbe atterrata a Casablanca per ripartire alle 8,20 ed arrivare a Bologna alle 12,25. Quale sorte le sarebbe toccata una volta giunta in quella sconosciuta città italiana non poteva immaginarlo, l'unica cosa che sapeva era di presentarsi alle autorità preposte, e avviare la procedura per il riconoscimento della protezione internazionale.

L'aereo prese il volo e  Christelle chiuse gli occhi. Qualche ora di sonno sarebbero state un toccasana per lei, ma era difficile riuscire a dormire. I fantasmi entravano e uscivano dalla sua mente. Stava scappando da un destino avverso e proprio in quel momento quante cose avrebbe voluto dire ai suoi genitori, cose mai dette, cose nascoste, come nascoste sono le monellerie di una ragazza di vent'anni. Certo, lei era una ragazza piuttosto vivace che, come si suol dire, faceva disperare i genitori, tanto che sia papà Hassan che mamma Louise ad un certo punto decisero di non metterle più troppi paletti, ma tre o quattro regole fondamentali a cui doveva rispetto. Tanto le monellerie le avrebbe fatte ugualmente, come quando, scappava via di casa i fine settimana, per andare a divertirsi ad Abidjan.  Era un amore smisurato che avevano per la loro unica figlia. In qualche modo, quell'amore, rappresentava una delle due dimensioni assolute della loro esistenza, l'altra erano le imprese commerciali che insieme si erano costruiti con anni di duro lavoro e fatica: quello era il loro secondo amore...

Le ragioni dell’odio

Gli eventi che hanno caratterizzato la Costa d'Avorio dal 2002 sono difficilmente codificabili nelle categorie che appartengono alle guerre tra i popoli, dove potere politico, interessi industriali e appartenenza etnico-religiosa si sono incrociati a vari livelli lungo tutto il ventesimo secolo e oltre. Se le guerre che attualmente sono combattute in Africa hanno un comune denominatore nel tribalismo, dato che principalmente coinvolgono le popolazioni civili, o neo-tribalismo, visto che le armi usate appartengono alla contemporaneità, quello che è successo in Costa d'Avorio, per alcuni versi, ha più i caratteri di una guerra di tipo feudale del nostro medioevo. Perché ad esercitare violenza sul territorio sono dei veri e propri clan, che dal 2002 si sono decuplicati. All'inizio vi era un'unica organizzazione militare ribelle, le Forces Nouvelles, dove convivevano tre ex gruppi autonomi. A questi si aggiungevano numerose formazioni mercenarie che operavano ai confini con la Liberia e la Sierra Leone, combattendo per il miglior offerente.

Ci sono molti aspetti particolari in questa vicenda che in qualche modo la rendono unica. Innanzitutto i motivi che hanno scatenato la guerra, motivi inizialmente difficili da leggere dall'osservatorio europeo. C'è innanzitutto la strana storia di una ordinanza del governo per smobilitare due guarnigioni, i cui ufficiali per organizzare una protesta, diciamo così, vigorosa cercano di coinvolgere alcuni esiliati promotori del precedente colpo di stato, che hanno ancora un certo ascendente nelle forze armate nazionali. C'è poi la vicenda del dissesto economico che il paese vive negli ultimi anni. La Costa d'Avorio è una delle nazioni più sviluppate dell'Africa sud sahariana. La funzione strategica del porto commerciale di Abidjan è una delle chiavi di lettura della circolazione delle risorse per l’intero paese, tanto che proprio in seguito alla crisi prima e all'instabilità indotta dalla guerra interna dopo, non poté più servire da polo di attrazione per alcune aree limitrofe, come il Mali, paese senza sbocco sul mare che a sua volta viene travolto da una crisi interna di sistema. Ma la principale chiave di lettura è sicuramente la gestione delle materie prime e soprattutto del cacao, di cui la Costa d’Avorio è leader mondiale nella produzione ed esportazione.

Sulle piantagioni di cacao c’è tutta un’altra storia da raccontare che risale al 1995, quando l’allora capo di stato Henri Konan Bedié, succeduto al padre della patria Houphouet-Boigny, per contrastare le mire di potere del suo rivale Alassane Ouattara si inventò il mito della purezza etnica ivoriana, facendo breccia tra ampie fasce della popolazione, generando un conflitto sociale latente. In Costa d'Avorio esistono una sessantina di gruppi etnici cosiddetti autoctoni, e poi svariate nazionalità africane, mediorientali ed europee che hanno migrato dagli anni quaranta fino agli anni novanta, creando commistioni tra ceppi sommariamente definiti non autoctoni. Tutto questo nel contesto generale di un paese diviso in due: il nord musulmano e il sud cristiano. Durante il lungo regno del Presidente  Houphouet-Boigny la dimensione multietnica era diventata proprio uno dei punti di forza sia della filosofia del potere che dello sviluppo produttivo, facendo diventare la Costa d'Avorio una delle aree più stabili ed economicamente progredite dell'Africa.  Con la morte del leader carismatico la sua eredità non fu assunta da nessuno, anzi la lotta per il potere iniziò a provocare la caduta negli inferi, che pochi anni dopo, cioè durante gli eventi che stiamo raccontando, porterà a galla un barbaro conflitto civile. Ma come ogni storia che si rispetti, riguardante gli scontri di civiltà che siano essi endogeni o esogeni, dietro il mito della purezza etnica ci stanno degli interessi da gestire, perché le piantagioni di cacao sono prevalentemente localizzate nel sud del paese ma gestite da imprenditori provenienti dal nord.
Sta di fatto che le politiche nazionaliste del nuovo governo in carica producono una forbice socio-economica sempre più ampia tra ricchi e poveri, considerato che questo paese è uno dei pochi dove esiste una classe media, proveniente dai commerci e dalle imprese, nelle aree urbane, e dalle piantagioni nelle aree agricole.

Però, da questo momento in poi, ci sono altre storie che si dirimano, che si perdono nei meandri dell'interpretazione storica. Una di queste è la diaspora. Si, perché già nei mesi immediatamente precedenti allo scoppio della guerra civile, nell'estate del 2002, molte famiglie non autoctone del nord furono stimolate ad andare via dal governo nazionale, perché la guerra era imminente e loro sarebbero stati presi di mira dai ribelli. Poi ci furono le successive espulsioni di massa, gli sfollamenti, la fuga di decine di migliaia di persone dai loro villaggi nei bush, per salvarsi dalle ritorsioni trasversali dei clan. Quello che è successo si può semplicemente sintetizzare nel fatto che attraverso il tema etnico le organizzazioni criminali hanno potuto saccheggiare villaggi e città, producendo fughe di massa, interne ed esterne... Tutto questo ha creato una situazione tale che rende impossibile poter fare un censimento esatto sulle famiglie. Ma la cosa ancora più paradossale è che l'impossibilità di censire la nazione diventa uno dei motivi che ha sempre impedito di indire le elezioni per normalizzare il paese: se il cane si morde la coda, vuol dire che qualcuno ci marcia...

I pensieri girano ancora

I pensieri girano in quella notte assurda, e le sentinelle della coscienza urlano il loro altolà, come carcerieri di una vita che si è infranta in un specchio di ombre. I pensieri girano sempre, ma senza la direzione di una strada maestra. Vagano per le vie laterali dei ricordi, dove l'immagine dei propri genitori si sgretola continuamente, così come si è sgretolato il suo mondo. Sono strade tortuose, interrotte dai vuoti d'aria dell'aereo. E’ un tragitto colmo di ostacoli e di trappole, le stesse che hanno portato il suo destino dentro una vita che non è la sua, che non può essere la sua. Perché di quelle trappole lei non ne sapeva niente, l'agiatezza che Hassan e Louise avevano costruito attorno alla loro figlia, serviva in qualche modo a difenderla da tutto quello che in Costa d'Avorio stava succedendo, come, appunto, le fughe che  la ragazza programmava con dovizia di particolari.

Aspettava che il venerdì pomeriggio i genitori uscissero di casa per recarsi al ristorante, pensava che presi dai problemi e dalla stanchezza di quei due giorni infernali di lavoro, non si sarebbero accorti di nulla. Il primo ostacolo da superare erano gli uomini della sicurezza che vigilavano sulla casa dei Barigalle. Le disposizioni che loro avevano a proposito di Christelle erano abbastanza chiare: uscire o rientrare ad una certa ora, di volta in volta indicata dai genitori. Lei sapendo che doveva ingraziarsi la benevolenza di quegli uomini, per farli tacere, li corrompeva con grosse cifre di danaro, visto che aveva comunque la possibilità di maneggiarne in buone quantità. S'incontrava poi col suo gruppo di amiche e in treno partivano per Abidjan. Anche se era in corso una sorta di guerra civile non sembrava proprio che questa potesse essere un ostacolo alla voglia di vivere la sua giovinezza in allegria. Nel suo troller rosa, che amava abbinare ai vestiti dello stesso colore,  teneva i suoi abiti più sexy per la sera, e nella sua borsa Dolce e Gabbana, tutte le cose che una ragazza di quell’età può avere, insieme a quattro cellulari ed un portafoglio colmo di banconote. Alla madre diceva che il padre non le aveva dato i soldi per il fine settimana, al padre diceva la stessa cosa della madre. Così sempre. Quando Hassan e Louise si accorgevano del trucco le facevano la solita romanzina, e tutto tornava come prima… La settimana seguente avrebbe fatto lo stesso gioco… Tutto sommato, per come si erano messe le cose a Bouake, che la ragazza passasse il suo tempo fuori dalla città, e soprattutto in luoghi protetti, dove la famiglia Barigalle era conosciuta, per loro andava pure bene.

Una volta arrivata ad Abidjan con le amiche si recava all’Hotel Intercontinental, tra i più esclusivi della città, per prendere una stanza: ovviamente avrebbe pagato lei. L’Intercontinental per quelle giovani ragazze era una sorta di eldorado della bella vita: ricchezza e agiatezza allo stato puro, tra piscina e idromassaggio, colazione in camera e uomini di un certo livello da cui farsi corteggiare. Lì, Christelle era conosciuta da tutti, dal portantino, che ogni volta le faceva gli occhi dolci, e lei ricambiava con un sorriso, al portiere che appena la vedeva sapeva che stanza darle: “Buon giorno signorina Barigaulle, la stavamo aspettando, senza di lei questo hotel non è lo stesso!” Il suo nome era importante all’Intercontinental...

Papà Hassan era conosciuto ad Abidjan, la sua scalata sociale era partita proprio da lì. Lui, libanese di nascita, sposato con una ivoriana doc, in pochi anni era riuscito a costruirsi a Bouake un piccolo impero commerciale. Prima un emporio, che in pochi anni diventerà tra i più grandi della città, e poi il ristorante Au Pacha, frequentato dal mondo ivoriano che contava. Per uomini d’affari, politici, militari francesi, turisti che provenivano da Abidjan era quasi un obbligo andare a mangiare da Hassan. C’è da dire che la famiglia Barigalle era ben integrata nel territorio, in pochi anni, infatti, riuscirono a costruirsi una posizione socio-economica alta, guadagnata con un impegno ed una dedizione al lavoro assolute. Una famiglia invidiabile per il contesto sociale di Bouake, anche perché era ben voluta da tutti. Era una delle tante famiglie non autoctone, cioè prodotto dei flussi migratori in Costa d’Avorio. Un ricco e affermato commerciante, insomma, libanese e cristiano... In un certo senso, questa sarà anche la sua condanna a morte...

La notte in quell'aereo sembrava non passare mai. Christelle chiudeva e apriva gli occhi in continuazione. Poi guardava l'orologio, erano ancora le cinque, quasi due ore per arrivare a Casablanca. Si girava ogni tanto verso Monsieur Kaschi, ma quello dormiva beatamente, anzi era il più fantasma di tutti. Due ore per telefonare a Konate, l'amico di famiglia che aveva aiutato lei e la madre ad arrivare a Bamako e aveva anche contattato Monsieur Kaschi per il viaggio della ragazza.  Chiuse ancora gli occhi e per pochi secondi riuscì ad addormentarsi. Poi li riaprì. Erano terrorizzati. Scoppiò a piangere. Si mise le mani sul volto come per non farsi sentire, ma comunque tutti dormivano. Sua madre era morta. Ebbe un sussulto, come una sorta di presentimento. Forse di più di un presentimento perché lo sentiva dentro, era come se i suoi nervi fossero stati investiti da un maremoto invisibile. Aveva sentito qualcosa. Aveva sentito che mamma Louise era morta. Non riusciva a tenere le lacrime Christelle. Piangeva e singhiozzava come una bambina che si è persa e non trova più la mano che l'accompagna. Lei donna/bambina, lei ragazza/donna, con la sensibilità di una bambina, l'impudenza di una ragazza,  la caparbietà di una donna. Piangeva e singhiozzava: qualcosa le aveva comunicato che la sua mamma non c'era più. Adesso i pensieri si erano spenti, perché il pianto aveva rotto i circuiti dei ricordi, i suoi nervi ed i suoi muscoli erano a pezzi. Pianse fino alle sei del mattino, poi si addormentò per la stanchezza.

La guerra delle maschere

Tante storie che si vanno ad incrociare e rendono assolutamente ingarbugliata la matassa da districare. Cerchiamo di leggerle attraverso l’uso delle maschere. Nella storia del teatro e della letteratura le maschere hanno sempre assunto una funzione esplicativa della realtà:  il principe o il guerriero, il bravo o il codardo, il traditore o l'eroe.

Il Principe è Laurent Koudou Gbagbo. Professore di Storia all’Università di Abidjan e Preside della facoltà di Lingue, dopo aver fondato il Fronte Popolare Ivoriano, è costretto, nell’85, all’esilio in Francia, per rientrare qualche anno dopo, giusto in tempo per candidarsi, con scarso successo, alle elezioni presidenziali del ‘90. Lo ritroveremo nel 2000 sempre come candidato alla medesima carica. Il suo rivale è il leader militare Robert Guéï, che si dichiara vincitore. Scoppia una rivolta ad Abidjan, poiché Gbagbo afferma di aver vinto lui con quasi il 60% dei voti. Guéï scappa e Gbagbo si insedia nella carica: finalmente diventa Principe, anche se l’amministrazione Clinton non lo vuole riconoscere, per la poca chiarezza nella gestione delle elezioni.

Ma torniamo per un attimo alle motivazioni del tentativo di colpo di stato che due anni dopo cercherà di defenestrarlo. Perché c’è un’altra versione, dove entra in gioco un altro Principe, assai più potente del Presidente in carica, che però nella messa in scena degli eventi ivoriani assume una dimensione strettamente legata alla maschera del Potere in quanto tale: è la Francia. Attenzione, non si tratta della Francia rappresentata dal questo o quel Presidente, ma la Francia come Potere di condizionare le ex aree coloniali attraverso la cosiddetta Françafrique. Infatti, una delle altre storie che sono uscite fuori da questa vicenda è che la ribellione sarebbe stata fomentata, soprattutto con l’intervento dei mercenari, tra Liberia, Sierra Leone e Burkina Faso, proprio dal governo francese, per destabilizzare il Principe ivoriano, considerato troppo nazionalista, al punto da minare gli interessi economici del paese d’oltralpe. Secondo questa nuova interpretazione degli eventi in Costa d’Avorio, non ci sarebbe stata una vera guerra civile ma un’attività di guerriglia che inizialmente aveva i punti forti nelle città di Abidjan al sud e Bouake al nord. Non riuscendo nell’impresa di sovvertire il Principe ivoriano si è dunque creata la situazione per cui Abidjan, capitale commerciale del paese, è rimasta al Potere costituito, e dal punto di vista sociale si è normalizzata, mentre Bouake è andata ai ribelli, diventando ricettacolo di violenza e degrado morale, tale da farla sprofondare nel medioevo appunto.

Certo, anche questa interpretazione risulta difficilmente leggibile se contestualizzata all’evoluzione dei fatti, considerato che le Nazioni Unite avevano da subito dato il loro sostegno al governo eletto e la Francia non poteva certo, nemmeno ufficiosamente, come fu per decenni nello stile degli Stati Uniti in Sud America, apparire come sponsor dei guerriglieri. Quando nel 2002  le tre organizzazioni militari si riuniscono a Bouake sotto un’unica regia politica, chiedono immediatamente alla Francia di restare fuori dai giochi e che ogni rappresaglia militare nei confronti dei ribelli sarebbe stata considerata un atto di guerra a tutti gli effetti. Questo perché l’esercito francese, nei mesi precedenti, era intervenuto contro i ribelli nelle città di Man e Duekoue, sempre nel nord del paese. L’elemento ancora più assurdo che si va ad aggiungere è che soltanto pochi mesi dopo i francesi cominciarono ad essere attaccati anche dai governativi, per poi raggiungere un accordo di non belligeranza.

Ufficialmente l’esercito francese era presente in Costa d’Avorio, per controllare il cessate il fuoco concordato nell’ottobre del 2002: una tregua restata sulla carta. La Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale intanto aveva deciso l'invio di 1.500 uomini da impiegare accanto al contingente francese. Dopo si aggiungeranno i caschi blu dell’Onu, e tutti insieme per cinque anni controlleranno una sorta di linea Maginot, chiamata zona di confidenza, che si estendeva tra est e ovest dividendo in due il paese: il nord controllato dai ribelli e il sud dal governo eletto.

E il guerriero chi è in questa storia? Si chiama Guillame Soro ed è il capo dei ribelli delle Forces Nouvelles. E’ colui il quale dopo le prime settimane di battaglia prende in mano il nord del paese, fomentando azioni di guerriglia. Ma Soro è un guerriero sui generis perché anziché fare la guerra di movimento, mantiene il controllo di una determinata area del paese, attraverso i clan. Il suo quartier generale è a Bouake; nel momento in cui si insedia costruisce il suo sistema di controllo territoriale, all'interno del quale c'è un patto con i ceti produttivi, a cui vengono garantiti protezione per loro, le loro imprese e le loro famiglie al costo di un pizzo mensile sui guadagni. Così fu anche con Hassan Barigalle. Nell'accordo che aveva stilato con lui e con gli altri imprenditori e commercianti della città si stabiliva anche che quando Soro sarebbe riuscito ad andare al potere,  tutti avrebbero smesso di pagare la protezione, poiché la situazione si sarebbe normalizzata. Infatti, è proprio lui il referente dei tavoli per le trattative di pace, che si susseguono negli  anni senza alcun risultato.

Bouake, un milione di abitanti, era già da diversi anni un caso-tipo di decadenza morale, a causa dei crimini contro l'umanità. Paradossalmente c'erano due città parallele: la prima era quella, appunto, dei ceti produttivi, della borghesia, soprattutto non autoctona, che pagava la protezione a Soro e riusciva a garantirsi una vita assolutamente normale, tanto che Christell, come alcune sue amiche, non si rendeva pienamente conto che attorno a lei c'era un conflitto. Era la città del miscuglio etnico, combattuta dal falso mito dell’ivorianità. Poi c'era la città sodomita, cioè la città sprofondata negli inferi, perché la guerra in Costa d'Avorio è stata proprio questo. C’è un evento che è abbastanza significativo per spiegare cosa succedeva a Bouake. Nei vari scontri che si sono succeduti tra esercito regolare e ribelli l’obiettivo era sempre quello di riconquistare la città. Dopo uno di questi attacchi il ministero della difesa annunciò che la città era stata presa e che l’esercito regolare l’aveva posta sotto il suo controllo. In alcuni quartieri si sollevò una sorta di caccia ai ribelli, la cittadinanza stessa uccise alcuni di questi incontrati per strada. La vendetta fu atroce. Vennero massacrate decine e decine di persone, le donne furono indotte in schiavitù e i bambini furono venduti ai ribelli che controllavano le zone boschifere.

Esodi, sfollamenti, persecuzioni, massacri hanno smembrato migliaia di famiglie. Chi ad esempio apparteneva all’amministrazione pubblica veniva trucidato a colpi di machete. Così donne e ragazze rimaste sole sono state rapite e schiavizzate dai capi clan, costringendole, attraverso brutali riti di iniziazione, alla sudditanza. Ai figli troppo piccoli di alcune di  queste ragazze è stata riservata una fine terribile: dentro delle fosse comuni. Dopo aver soddisfatto le voglie dei bravi, le donne venivano fatte prostituire nei locali della città, i cui clienti erano normali cittadini, ribelli o addirittura funzionari dell’ONU.

Poi, nel 2007, in Burkina Faso c’è la svolta. Viene raggiunto un accordo, poiché dal tavolo del negoziato rimane esclusa la mediazione internazionale con in testa la Francia: il Principe rimane presidente ed il Guerriero diventa primo ministro.

Quello è uno dei due giorni che cambieranno la vita di Christelle, come di tante altre persone, ma lei in quel momento non può saperlo... Questo perché da quel giorno la situazione nel nord anziché regolarizzarsi con la resa delle armi da parte dei clan e la riorganizzazione di un esercito regolare, va a peggiorare. I clan si spezzettano in sottogruppi praticamente anarchici, rifiutando di deporre le armi. Perché? E cosa determina questo nella vita della famiglia Barigaulle?

Scalo a Casablanca

Il segnale di allacciare le cinture di sicurezza era scattato. Christelle dormiva ancora. Venne svegliata dall'hostess: “Scusami, ma devi allacciare la cintura!” Con gli occhi pesti e un gran mal di testa, per quanto aveva pianto, obbedì. I suoi nervi erano spenti. Quel macigno enorme che si stava portando appresso, sembrava schiacciarla. Ma lei con il temperamento della donna caparbia cercava di raccogliere le forze e non farsi travolgere. Lo stesso temperamento che due anni prima  rese felice suo padre. Papà Hassan voleva metterla alla prova, per vedere se i suoi insegnamenti, ad una figlia vissuta nel lusso, avevano sortito degli effetti. Un giorno, sempre in presenza di mamma Louise, le fece un regalo straordinario: due milioni di franchi ivoriani e le disse: “Fanne quello che vuoi!” Dietro quella frase però c'erano tanti significati. Ma anche una domanda fondamentale: cosa ne avrebbe fatto, proprio lei, di tutti quei soldi? Vestiti, borse, scarpe, eccetera. In effetti un sogno ce l'aveva: andare a studiare  Londra, nella parte economicamente più avanzata dell'Europa. Ma questo gli era precluso poiché il padre non la voleva così lontano da lui.

Per papà Hassan, una mattina di inizio estate del 2006, fu forse uno dei giorni più appaganti della sua vita. Mamma Louise già la sera prima gli aveva detto di tenersi libero per la giornata successiva poiché doveva portarlo in un posto molto particolare. Assolutamente ignaro di tutto, quella mattina uscì di casa con sua moglie che, alle insistenti richieste di spiegazione dell'uomo, rispondeva con dinieghi e mezzi sorrisi. Passarono con l'auto lungo la  strada del loro ristorante, duo o tre isolati dopo si fermarono proprio davanti ad un negozio. Si chiamava Boutique Renè era un negozio di cosmesi e bellezza femminile. Entrarono e furono accolti dalle due impiegate: “Buon giorno signori Barigaulle, vi stavamo aspettando.” L'uomo si girò verso la moglie con una smorfia, come per dirgli: “Ma che significa?” E lei gli rispose con quel mezzo sorriso ormai scolpito: “Aspetta un attimo che chiamo la padrona.” Entra in direzione e urla: “Allora Capo, fatti vedere...” Quando papà Hassan vide uscire da quella porta sua figlia, capì ogni cosa... Capì che il suo insegnamento era stato accolto, e che senza chiedergli aiuto la figlia aveva accettato la sfida del padre. Fu l'uomo più beato del mondo perché quei soldi Christelle li aveva investiti in un'impresa commerciale. Aveva fatto tutto lei, certo, con l'aiuto fondamentale di mamma Louise, ma era riuscita a mettere su un negozio legato al suo modo di essere, cioè quello dell'apparire, con una professionalità straordinaria. Scelta dei prodotti, fornitori, servizi di make-up, aveva pianificato tutto: due impiegate e lei alla gestione della contabilità. Non riusciva proprio a credere ai suoi occhi papà Hassan quella mattina...
In quell'aereo Christelle sentiva che la tragedia in cui si era imbattuta non era una prova a cui la vita la stava sottoponendo, era di più: una violenza, attraverso cui le veniva strappata l'anima. Intanto l'aereo stava atterrando a Casablanca. Erano quasi le sette del mattino e fra poco avrebbe avuto notizie di mamma Louise. Una volta atterrati, i passeggeri scesero ordinatamente dalle scalette per il cambio d’aereo: c’era circa un’ora d’attesa. Stretta in se stessa Christelle si diresse  con Monsieur Kashi verso il controllo documenti e poi direttamente al gate per il nuovo imbarco. Andò a rimettersi un po’ in sesto in bagno e dopo si posò su una poltroncina. Prese il cellulare e telefonò. Konate ci mise un pò per rispondere. Quando la ragazza iniziò a parlare, l’uomo rimase in silenzio e poi pronunciò le parole: “Fatti forza, tesoro, la mamma non c’è più…” Christelle non disse niente, restò muta. L’uomo, dall’altra parte del telefono cercò di confortarla con parole dolci. Poi si salutarono.

Christelle restò seduta e iniziò a piangere, un pianto sacrificale più che catartico. Piangeva sola con se stessa, per quella vita che gli era stata portata via… Piangeva e singhiozzava, erano spasimi di pianto che non riusciva a contenere, che non voleva contenere. Monsieur Kaschi la guardò per un attimo impietosito e poi si girò dall'altra parte.  Davanti a lei c’era un’altra ragazza seduta, che la osservava con uno sguardo anch’esso sofferente. Le si avvicinò, si sedette accanto a lei, le accarezzò i capelli intrecciati come tante ragazze africane usano portare. Non le disse niente, semplicemente la abbracciò e le porse la sua spalla per piangere. Christelle si strinse forte a quella sconosciuta. Una piccola boa fatta di calore umano per quell’anima strappata.

Si chiamava Désiré, era congolese, anche lei era in fuga e anche per lei due giorni avevano segnato per sempre la sua vita. Il primo giorno fu quando entrarono in casa sua,  in un villaggio vicino a Kinshasa, un gruppo di ribelli. Per un mese la stuprarono quasi ogni sera davanti ai propri figli, picchiando il marito. Il secondo giorno fu quando, uno dei quattro figli di undici anni protestò mentre stupravano la sua mamma. Due di quelle belve si occupavano della donna, un altro prendeva il piccolo per i capelli, sparandogli in testa. Quel giorno i ribelli portarono via il marito da una parte e lei da un’altra, mentre gli altri tre figli riuscirono a fuggire…

Processo ai bravi

Quando si forma il nuovo governo in Costa d'Avorio i nodi politici da sciogliere sono  principalmente legati all'impossibilità, quasi “tecnica”, di normalizzare il paese, poiché la titolarietà della gestione del territorio ce l'hanno i clan militari, o per meglio dire gli ex clan militari, i cui componenti da adesso in poi verranno definiti ex ribelli. Ed è proprio questo il punto. Perché il nuovo posizionamento di Soro garantisce se stesso e pochi altri, la gran massa di bravi che fino a quel momento si sono arricchiti negli anni della guerra, restano sul campo a saccheggiare il territorio, rifiutando di consegnare le armi. La popolazione civile diventa preda di bande che si sono ancor di più frammentate e ricomposte, dentro un'area territoriale assolutamente senza legge. Non solo, ma il fatto che il controllo del territorio voglia dire guadagni, mette in competizione le bande tra loro. Queste si fanno guerra a vicenda, utilizzando  ritorsioni e regolamenti di conti in perfetto stile mafioso. Come in stile mafioso sono le pax, cioè gli accordi di non belligeranza o addirittura di collaborazione tra clan diversi.

I boss di queste bande sono dei crudeli criminali che taglieggiano i cittadini, riducono in schiavitù donne e bambine, trafficano in organi, cercano cioè di arricchirsi a più non posso dal potere che esercitano nel loro feudo, e che difendono con le armi. Ecco la maschera del bravo, predatore nato, famelico nella sua delirante rabbia di ricchezza, bandito comune poiché sprovvisto di mete ideali. Il concetto di separazione tra vita e morte non è praticabile, perché la morte è comunque uno strumento di guadagno.
Ma c'è un'altra storia da raccontare. Una storia dove le maschere possono essere viste come la rappresentazione assurda di un mondo capovolto, dove il bene e il male non riescono a trovare le proprie radici poiché si perdono negli anfratti remoti della realtà. E' la storia di un processo penale mai svoltosi, che vede come imputato il capo di un immenso campo militare, nei pressi della città di Man, trasformato in villaggio di guerriglieri che lo abitano con le loro famiglie, in tutto circa cinquecento, proprio in mezzo alla zona di confidenza. Il boss viene accusato di atroci crimini nei confronti della popolazione civile, come anche dei suoi stessi uomini. Le accuse rivolte dal Pubblico Ministero sono gravi e circostanziate poiché comprovate da una serie di testimonianze dirette raccolte da organismi di cooperazione internazionale.

“Quest'uomo, per circa tre anni, ha organizzato assalti ai villaggi con massacri e stupri. Posti di blocco per rapinare la gente di passaggio, torture e ferimenti di vario genere, dove l'arma più usata è il machete, oltre a reprimere, anche nel sangue se fosse stato necessario, le manifestazioni di protesta della popolazione di Man, contro i suoi soprusi”.

Poi, dopo l'accordo tra il Principe ed il Guerriero, lui che era semplicemente un bravo, decise di smobilitare il campo e unirsi ad un altra banda di ex ribelli, costituitasi in una sorta di “cupola”, poiché raccoglieva piccoli gruppi di sparuti bravi, per prendere il controllo totale delle due città: Man e Duekoue.

“Con gli altri leader venne deciso che ai componenti del villaggio, che non volevano unirsi alla nuova organizzazione, sarebbero stati riconosciuti 500.000 franchi per tornarsene nelle loro città al sud del paese. Un centinaio di uomini non aderirono al nuovo progetto, e i capi affidarono i danari da dividere all'uomo che era il loro capo e che oggi abbiamo qui davanti.  Egli però ne corrispose solo in minima parte, il grosso del quantitativo se lo tenne lui. Gli uomini protestarono fortemente, minacciando di ucciderlo. Egli allora prese tempo. Disse loro che il resto dei soldi sarebbero stati dati nel giro di pochi giorni. Così, si recò notte tempo dai leader della nuova organizzazione e li denunciò, raccontando che quelli in realtà non avevano nessuna intenzione di tornarsene a casa ma stavano per armarsi proprio contro di loro. La notte seguente nel villaggio entrarono diverse centinaia di ex ribelli e massacrarono quei cento uomini, stuprarono le donne e poi le uccisero insieme ai loro figli”.

La cosa che colpisce in questa storia, oltre ovviamente ai crimini, è l'arringa del difensore del bravo, che cercando di sovvertire il sistema dei significati, come fa ogni scaltro avvocato, individua le responsabilità dei crimini del proprio cliente in qualcosa che sta al di sopra della sua umana vita. Ma è davvero un sovvertimento dei significati o ci può essere una logica in tale strategia difensiva...?

“Quello che mi si chiede oggi è di difendere un uomo che voi avete già condannato. Si perché i crimini che avrebbe commesso sono così estremi che il giudizio sembra irrimediabile. Però permettetemi  prima di iniziare con un ricordo. Quando il nostro Primo Ministro anni fa strinse la mano al mio cliente e gli disse bravo, so che la nostra causa trionferà perché abbiamo uomini come te... Questo gli disse il nostro Primo Ministro! Ed è proprio per questo che ora vi chiedo di ascoltarmi. Io oggi voglio parlare del nostro mondo, cioè della nostra Africa. Ma voglio anche parlare di un Grande Gioco che ha tenuto il nostro continente schiavo del mondo occidentale. Quel Potere oggi non si manifesta più come una volta, imponendoci le sue leggi, i suoi governatori, i suoi costumi. Oggi è diverso. Oggi è il denaro che conta, perché questa è la nostra società. E' la caratteristica dell'umana specie del nostro mondo, perché non c'è niente, dico niente che possa realizzarsi al di fuori del denaro. Niente di glorioso, gradevole, orgoglioso che si possa realizzare senza il denaro. Forse i governi di tutti paesi africani non sono retti sul piacere del denaro, soprattutto quando fanno affari con gli occidentali per sottrarre le risorse ai cittadini...? Non è forse la forza dello stesso denaro a far si che se si combattono guerre c'è chi ci guadagna...? E ancora, vi chiedo, non è forse il denaro a sventrare interi territori per far posto agli insediamenti industriali occidentali, distruggendo pesca e agricoltura, affamando così il popolo, che su quelle attività ha costruito la propria vita...? Già, il popolo...! Perché  illustrissimi signori della corte, voi oggi rappresentate il popolo, e questo tribunale giudica in nome del popolo...! Ma il popolo può giudicare gli abusi che subisce dal Principe e dai suoi guerrieri...? Perché quali abusi possono essere ascritti al comportamento del mio cliente se non quello di essere un uomo fidato del Principe, su cui il Principe ha puntato per la riscossa della sua stessa causa, perché è questo che è successo al mio cliente. Si dice che ha fatto uccidere per denaro, ma non è la stessa cosa che fa il Principe...?Non è forse la stessa cosa che fanno le compagnie economiche occidentali? Ma allora, signori della corte, perché il mio cliente deve pagare per questo? Si dice che ha torturato, ma in una guerra come questa un soldato, che ha anche delle responsabilità di comando, utilizza quei metodi che gli sono stati insegnati. Si dice che ha stuprato delle donne. Ma nel nostro ordinamento non esiste una legge che vieti di avere rapporti sessuali anche non consensuali. E poi si sa, l’uomo è un dominatore per vocazione, e di questo vogliamo fargliene una colpa? Si dice poi che ha venduto esseri umani, che ha ucciso bambini, si dice persino che avrebbe violentato una infante di tre anni! Ma signori, lo stesso Presidente della repubblica ivoriana ha firmato una ordinanza che garantisce l’amnistia per quei cosiddetti crimini commessi nell’ambito della guerra. Perché una guerra è una guerra! Una guerra è di per se un crimine contro l’umanità, e per questo deve pagare il mio cliente? Ma gentili signori della corte, vi sembra possibile che un uomo che per anni è stato accanto al nostro primo ministro, possa essere portato in un tribunale per essere giudicato...? Un uomo che ha combattuto per un paese di ivoriani deve trovarsi alla sbarra? No, signori della corte, questa è una vera e propria ingiustizia, che voi come rappresentanti del popolo dovete sanare...” 

L’inizio della fine

Désiré teneva Christelle per mano durante l’attesa al gate, scambiandosi a vicenda sguardi di conforto. Anche lei era con un uomo che le aveva fornito un biglietto per Bologna ed un passaporto falso: come prassi se lo sarebbe ripreso una volta atterrati in Italia. Le due ragazze fecero subito amicizia, e nell’attesa di imbarcarsi riuscirono a trovare la voglia di scherzare, prendendosi gioco dei loro accompagnatori. Una volta entrati nell’aereo le ragazze chiesero loro di potersi sedere insieme, per affrontare l’ultimo pezzo del viaggio.

Christelle sembrava un pò più tranquilla grazie all’incontro con quella sconosciuta. Tra una parola e l'altra scambiata conDésiré la sua mente ogni tanto si astraeva. I ricordi tornavano ai genitori e al suo passato. Adesso aveva ben chiaro cos'era successo in quel secondo giorno che le avrebbe cambiato la vita: era il giorno che uccisero suo padre.

Dopo la nomina di Soro a capo del governo, Bouake si trovò a vivere un vero e proprio sconquasso ai vertici del sistema di gestione del territorio. Il Presidente Gbagbo aveva annunciato l'evento, sottolineando che gli ex ribelli dovevano consegnare le armi, per poi entrare nell'esercito regolare. Tra la popolazione del nord affiorava la speranza che quegli anni di violenza e instabilità fossero giunti al termine. I commercianti e gli imprenditori levarono un sospiro di sollievo: finalmente il pizzo ai ribelli non doveva più essere pagato. Ma questa euforia durò poco perché da  quasi subito si capì che le cose anziché migliorare erano destinate a peggiorare. A molti capi clan non veniva riconosciuto un inserimento nell'esercito ad un grado superiore e altri non erano neanche stati pagati. I clan ritornavano sul territorio a saccheggiare la popolazione. Tornarono all'assalto dei commercianti e degli imprenditori per  riscuotere i “sospesi”. Bouake diventava ancora più pericolosa, poiché quel minimo di “regolamentazione del saccheggio” garantita da Soro non esisteva più. I clan erano sempre più affamati e la situazione di anarchia sempre più dilatata.
Hassan Barigalle fu uno dei primi ad essere preso di mira. Gli venne chiesto un enorme quantità di denaro, maggiore rispetto a quella estorta da Soro. I primi mesi decise di pagare, anche per capire se la “normalizzazione” prima o poi sarebbe arrivata. Poi, non riuscì più a pagare. Le somme richieste erano altissime e le imprese cominciarono a subire un collasso finanziario. Egli non era più in grado di pagare, del resto non poteva chiedere  aiuto a nessuno. Il governo nazionale gli aveva consigliato a suo tempo di andare via ma lui e la sua famiglia decisero di restare, era considerato ufficialmente un uomo poco gradito proprio perché, anziché andarsene, aveva contribuito a mantenere i ribelli... E Soro, l'uomo che in quegli anni l'aveva protetto, era paradossalmente diventato capo di quel governo. Hassan era rimasto solo a combattere contro la guerra, purtroppo era diventata la sua guerra: ecco l'ultima maschera, è quella dell'eroe.

Subiva continue minacce, gli ripetevano che l'avrebbero ammazzato, che avrebbero bruciate le imprese, che avrebbero preso sua moglie e sua figlia. Una sera, mentre era a cena con la sua famiglia, disse loro che la situazione stava precipitando. L'idea era quella preparare una via di fuga per le donne verso Abidjan. Lui sarebbe rimasto a Bouake fin quando la situazione non si fosse normalizzata. Bisognava chiudere, per il momento, l'emporio e la boutique di Christell, e lasciare aperto solo il ristorante: poi resistere. Dopo chiamò Konate, vecchio e fedele amico di famiglia, e gli chiese di accompagnare mamma e figlia ad Abidjan, ma erano necessari alcuni giorni per far tutto, soprattutto bisognava organizzare la dialisi per Louise, poiché era ammalata di insufficienza renale. Nel frattempo si era procurato una pistola  che sistemò dentro la cassaforte del ristorante, insieme ai soldi. Gli uomini del clan presto sarebbero tornati e lui voleva che moglie e figlia fossero fuori da Bouake il prima possibile.

Finalmente il giorno era arrivato. Aveva appuntamento con Konate al ristorante. Dopo la chiusura, sarebbero tornati insieme a casa sua. L'amico avrebbe dormito lì quella notte e poi sarebbe ripartito per Abidjan la mattina seguente insieme a Louise e Christelle. Quella sera però i due non si videro perché gli eventi precipitarono all'improvviso. In effetti quella sera Konate ritardò l’incontro, e forse questo gli salvò la vita. Alla chiusura, si presentarono gli uomini del clan. Scesero in cinque da un'auto rubata, armati fino ai denti. Fecero uscire tutto il personale rimasto e restarono soli con Hassan. Intanto gli chiesero tutto l'incasso della giornata, ma solo come acconto. Hassan aprì la cassaforte ma non ebbe neanche il tempo di prendere la pistola perché fu fulminato da una scarica di mitragliatrice. Saccheggiarono il ristorante e poi gli diedero fuoco. Il corpo di Hassan rimase dentro a bruciare insieme a quella che era la parte più prestigiosa del suo piccolo impero commerciale. Quando Konate arrivò vide il locale in fiamme e tanta gente fuori che assisteva impotente a quello spettacolo orribile. Riconobbe un vecchio commensale del Pacha, era con la lacrime agli occhi: “Hassan è morto! L'hanno ammazzato. Devi avvisare Louise, perché la stanno cercando vogliono i soldi! Vogliono i soldi!”. Konate telefonò alla donna dicendole di  andare via  immediatamente da casa e cercare un nascondiglio, e che l'avrebbe raggiunta. Le comunicò in modo concitato che era successo qualcosa a suo marito e che dovevano uscire immediatamente da quella casa. Louise e Christelle misero i bagagli, che già avevano preparato per la mattina seguente, in auto e raccolsero tutti i soldi e le cose di valore che c'erano in casa. Si diressero immediatamente da una vecchia amica della donna, di etnia Dioula, e lì ripararono.

Si nascosero per quasi un mese. La situazione stava evolvendo in modo drammatico poiché ad Abidjan non potevano più andare, la linea di confine tra nord e sud era controllata dagli ex ribelli e visto che le due donne erano ricercate, il viaggio sarebbe stato troppo rischioso. L'unica possibilità era il Mali. Più giorni passavano e più il rischio di essere prese aumentava. Quindi si doveva andare subito nel paese confinante. Per  Louise questo voleva dire comunque la morte, perché lì la dialisi non poteva farla. Ma lei doveva pensare a sua figlia, quantomeno a metterla nella condizione di poter avere un'altra vita da vivere. Ecco che la maschera dell'eroina assume significato in nome della genitorialità. Il sacrificio ha in se  una connotazione simbolica che va al di là del gesto stesso perché diventa il senso di una storia. A bordo di un camion guidato da Konate, una notte di inizio estate del 2008, Louise e Christelle partivano per Bamako. Qui restavano un mese giusto il tempo per organizzare la fuga di Christelle per l'Europa. Ma qui finisce anche la storia della Famiglia Barigalle. Una storia che non è come tante altre, ma che come tante altre descrive il mondo come noi non lo vogliamo conoscere...

Un’altra vita da vivere

L'aereo sta per arrivare a Bologna, il viaggio delle due ragazze è quasi finito. Le loro vite, appese ad un destino che le ha tradite, avranno per molto tempo solo un presente e non un futuro. Dovranno vivere giorno per giorno e sperare che tutto vada bene. Appena scendono dalla scaletta dell'aereo Christelle e Désiré si tengono sempre per mano e cercano di confortarsi l'una con l'altra. Raggiunti i bagagli i due  accompagnatori recuperano i passaporti e consigliano loro di andare alla stazione dove c'è un posto di polizia, le salutano e vanno via. Le due ragazze si fanno forza, si avvicinano al bar per comprare dell'acqua. Mentre sono in fila alla cassa, alle loro spalle ci sono due uomini in giacca e cravatta, che sembrano tornare  da un viaggio d'affari. Discutono amabilmente degli ultimi sbarchi a Lampedusa. Ma le ragazze non possono capirli, perché ancora non parlano l'italiano.
“Ma perché non se ne stanno a casa loro questi. Ma cosa credono di trovare qui... Non c'è lavoro neanche per gli italiani, e vengono da noi...”
“Secondo me anziché farli venire qui, gli Stati dovrebbero fare in modo che il lavoro lo trovino a casa loro... Noi staremmo meglio e loro sarebbero più contenti di restare nel loro paese...”

RAGAZZI DI FAVELA
Dimensione Brasile

Da dove cominciare per raccontare il Brasile di oggi? La domanda non è affatto sibillina, poiché questo paese, grande quasi come un continente, è considerato, insieme all’India, l’economia emergente del mondo contemporaneo, però come in India, gli indici finanziari non spiegano, le condizioni socio-economiche e culturali, di tipo terzomondista, in cui versano ampie fasce di popolazione, compresi i soggetti vulnerabili come i minori.

Diciamo subito che negli ultimi dieci anni, cioè dall’insediamento di Lula al potere, il Brasile è molto cambiato e questo perché  più di venti milioni di persone, che vivevano sotto la soglia di povertà, sono riusciti a risalire su per la scala sociale, uscendo fuori dalla situazione di bisogno, mentre quasi la metà, almeno secondo l’Ocse, dei centonovanta milioni di brasiliani, oggi, appartengono alla classe media, nuovo baricentro sociale del paese.

In Brasile esistono cinque classi sociali suddivise per lettere: A e B sono i ricchissimi, C e D rappresentano la classe media, E sono quelli al di sotto della soglia di sopravvivenza. Lula ha saputo valorizzare la produzione interna con l’aggancio a nuovi mercati, rafforzando il potere di acquisto, permettendo il passaggio dalla classe E alle classi C e D ad una fetta di popolazione. Infatti, quando la domanda estera è calata a causa della crisi internazionale il Brasile ha retto il colpo grazie alla crescente capacità di spesa interna.

Se nuovi mercati esteri e investimenti dall’estero hanno reso il Brasile una economia dinamica ed emergente, e la capacità di spesa dei brasiliani è aumentata, ma allora perché nell’estate del 2013 centinaia di migliaia di brasiliani hanno protestato per le strade delle città dove si giocava la confederation cup? Perché lo sviluppo della nazione brasiliana in realtà non è così lineare...
C’è la storia del sistema creditizio, ad esempio, che ha inguaiato migliaia di famiglie, poiché negli anni dell’espansione economica le banche hanno concesso crediti senza che queste avessero la capacità di farne fronte, ed infatti, poi, non hanno potuto corrispondere al prestito e si sono indebitate fino a raggiungere l’abisso.

Poi c’è la storia dei senza terra che va avanti da più di vent’anni, con una riforma agraria che lo stesso Lula non è riuscito a portare avanti poiché la lobby dei “fazenderos” è così potente che questa riforma, che dovrebbe ridistribuire le terre ai lavoratori, potrebbe realmente risolvere il problema della povertà assoluta in Brasile una volta per tutte. Anche perché è dagli anni settanta che dalle campagne c'è l'esodo verso le favelas delle metropoli o megalopoli brasiliane, importando forza lavoro senza nessun tipo di scolarizzazione né competenze: sono eserciti di disperati, che, come è fisiologico, vengono intercettati dalle organizzazioni criminali.

E qui siamo al punto più dolente, forse, perché sul tema delle favelas la presidenza Lula è mancata all’appuntamento con la storia. Questo perché si è deciso di intervenire solo perché nel giro di due anni in Brasile si terranno i campionati del mondo e le olimpiadi; la necessità indotta da questi due eventi è stata quella non di fare un piano nazionale di risanamento sociale ed economico delle favelas, garantendo vita dignitosa per tutti, ma di “pacificarle”.

Questo significa che è stato creato un corpo speciale dell’esercito per affiancare la polizia, che ha “ripulito” le maggiori favelas di Rio e San Paolo dai clan di narcotrafficanti, per garantire lo svolgimento dei due mega eventi. Forse se Lula dieci anni fa avesse programmato una pacificazione legata all’ordine pubblico ma anche al risanamento socio economico delle favelas tutto sarebbe diverso. Anche perché le guerre innescate per la pacificazione sono soltanto uno dei pezzi di veri e propri conflitti urbani, in un paese in cui vi è una media di un omicidio ogni nove minuti. E che dire della pratica del turismo sessuale o dell’abuso sui minori, garantito da reti locali, tra cui anche familiari, e i nuovi conquistadores che vengono dall’Europa...

Ma l’elemento che immobilizza di più il paese e che ha fatto scendere in piazza i brasiliani è sicuramente la corruzione pubblica.  E’ questa la dimensione più drammatica, da un certo punto di vista, poiché qualsiasi operatore di un ufficio pubblico, grazie ad un sistema burocratico ottocentesco, esercita un potere di ricatto sui cittadini, che devono subirlo inermi, poiché non hanno nessuno strumento di liberazione da questo sistema mafioso di gestione della cosa pubblica. Ecco che se un cittadino brasiliano chiede un passaporto agli uffici comunali di una qualsiasi città, dovrà attendere tempi lunghissimi ed una trafila da far paura, per ottenere quel documento, a meno che non passi una tangente dall’operatore di turno che in un attimo risolve la pratica. Per cui quando occorre rivolgersi ad un ente pubblico, il cittadino stesso mette nel conto quanto quella pratica gli costerà per ottenerla informalmente.

Ma la corruzione pubblica non riguarda solo il sistema burocratico ma anche le forze dell’ordine, che a vario livello diventano portatori di illegalità… Una delle ultime e più macroscopiche vicende è legata alla polizia di San Paolo. Nel 2012 vi è stata una recrudescenza nella guerra tra narcos e forze dell’ordine con più di mille vittime, tra cui moltissimi minorenni. L’aspetto più particolare sta nel fatto che i proventi della droga fanno gola ad una fantomatica organizzazione di ex agenti di polizia, che sottraggono profitti ai narcos, diventando parte in causa nello scontro armato.

Cronache di un conflitto urbano

“Non esistono parole per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l'orrore. L'orrore ha un volto e bisogna essere amici dell'orrore. L'orrore ed il terrore morale ci sono amici. In caso contrario allora diventano nemici da temere. Sono i veri nemici...”

Queste parole sono del colonnello Kurtz, nel celebre film di Francis Ford Coppola Apocalypse Now, che racconta, nella sua essenza più profonda, il senso della guerra del Vietnam. Da allora l’orrore è stata una costante nei fatti del mondo, come anche il terrore morale. Ambedue sono i nemici del nostro tempo, per chi volesse leggere i fatti del mondo. Ma queste parole del Colonnello Kurtz oggi non sono soltanto associabili alle più o meno tradizionali guerre tra popoli, ma anche a quello che succede in molte strade delle città del mondo,:Brasile, Messico, Venezuela...

Nei giorni di novembre del 2012, nella megalopoli brasiliana di San Paolo, vi furono una serie sconcertante di eventi delittuosi da record, sia per numero che per intensità, simili ad un vero e proprio conflitto bellico, dove però i principali protagonisti, in termini di decessi, furono prevalentemente ragazzi delle favelas. Questo succedeva appena due anni prima dai mondiali di calcio, evento che ha indotto a “pacificare” le favelas da parte delle autorità costituite. Ovviamente il concetto semantico di pacificazione era soltanto uno specchio per le allodole, poiché si è trattato di un vero e proprio attacco militare che ha fatto morti e deportati da un luogo ad un altro… La guerra contro il narcotraffico, in sostanza è stata velocizzata dall’urgenza di chiudere con i clan mafiosi delle favelas, prima che iniziassero i mondiali…

Il 19 novembre del 2012 l’agenzia “Avante Brasil” pubblicava un rapporto nel quale venivano analizzati i dati relativi ai morti ammazzati nelle città del mondo. Una classifica che nel contesto delle maggiori economie del pianeta, collocava il Brasile al primo posto, con un morto ammazzato ogni 9 minuti e 48 secondi: numeri da conflitto bellico appunto. Negli Stati Uniti sono stati conteggiati un decesso ogni 34 minuti, mentre in Giappone un omicidio ogni 813 minuti e in Canada uno ogni 861 minuti. Il quotidiano Folha de São Paulo, lo stesso giorno, faceva il punto sui morti ammazzati in città: 14 persone uccise e 12 ferite in una sola notte, 140 uccise nelle ultime due settimane, 144 nel mese di settembre, 982 nei primi nove mesi del 2012. San Paolo diventava sicuramente il centro degli scontri tra cartelli mafiosi dediti al narcotraffico e le forze dell'ordine, almeno questa era la versione ufficiale... Perché l'acuirsi a San Paolo del numero di morti ammazzati e l'intensità della violenza di quelle settimane non riguardava solo scontro tra forze dell'ordine e cartelli mafiosi... Ma vediamo alcuni fatti tra il 12 e il 13 novembre...

Alcune testimonianze, da fonti giornalistiche, parlavano di un particolare nervosismo da parte della polizia a cominciare dalla sparatoria del venerdì sera, quando un agente fuori servizio, Edcarlos Oliveira Lima, vedeva innanzi a se un'auto sbandare, estraeva la pistola di ordinanza e sparava al conducente, uccidendolo insieme ad un accompagnatore seduto accanto a lui. Secondo quanto dichiarava l'agente, l'atto di sparare fu dettato dalla convinzione di aver visto uno degli uomini, dentro l'auto, con una pistola in mano, che avrebbe usato contro di lui. Chi ha assistette alla scena, insieme a parenti e amici delle vittime, parlò invece di un omicidio a sangue freddo. La notte successiva diverse azioni di commando si videro in varie parti della città. I primi spari si udivano a São Bernardo do Campo, quando un uomo a bordo di una moto di grossa cilindrata faceva irruzione in una casa, uccidendo due uomini, per fuggire via in modo fulmineo. Un'ora più tardi, poco vicino, un'auto della polizia aveva uno scontro a fuoco con due uomini, che venivano sopraffatti e uccisi. Dall'altra parte della città veniva trovato il corpo di un uomo con un proiettile nel cervello, a sottolineare che si trattava una esecuzione da giustizia sommaria. L'azione più efferata vedeva coinvolti sei giovanissimi tra i 14 e i 18 anni. Stavano mangiando le esfihas, i panini di carne, nei pressi di un chiosco, quando tre uomini, di cui stranamente soltanto uno era incappucciato, gli si avvicinano, li obbligavano a schierarsi dietro un muro e li fucilavano. In sintesi 14 morti e 12 feriti.

Una notte di guerra che è anche il racconto di una megalopoli dove viene combattuta una guerra con le sole armi da fuoco, non ci sono missili tipo a Gaza, non ci sono no fly zone, non ci sono navi che presidiano le coste, non ci sono strategie di posizione, ci sono pistole e mitragliatrici che fanno mattanze. Ci sono i clan mafiosi, sotto forma di cartelli della droga, ci sono i ragazzi che fanno da manovalanza, quindi i primi a morire, in quanto soldati semplici. E poi ci sono le forze dell'ordine, cioè la polizia civile, ma anche  il  Batalhão de Trânsito, una sorta di polizia militare, particolarmente dura, che è stata quella che direttamente è entrata nelle favelas per “pacificarle”. Ma non è tutto. Perché la realtà di San Paolo è molto particolare nel contesto della nazione brasiliana. Ora, che il livello di corruzione del sistema pubblico brasiliano sia altissimo questo è un triste dato di fatto, tra l'altro uno dei motivi che ha spinto alle proteste di massa i brasiliani durante i mondiali di calcio. Che la polizia brasiliana sia una delle più corrotte del mondo anche questo è un fatto, basta essere andato almeno una volta in vacanza da queste parti... Ma quello che sembra succedere a San Paolo ha dell'incredibile...

Torniamo per un attimo ai clan che controllano le favelas. Fino a qualche mese prima Rio de Janeiro aveva il record dei morti ammazzati perché tra i cartelli carioca non prevaleva nessuno, quindi erano sempre in guerra per il monopolio del traffico di droga sulla città, in una sorta di faida permanente. A San Paolo invece, c'era la supremazia del Primer Comando Capital, attivo dagli inizi degli anni novanta. E questa supremazia si diceva che garantiva una sorta di pax mafiosa. E forse anche per questo che San Paolo paradossalmente non è affatto considerata la città più violenta del Brasile. Comunque, la spiegazione della polizia civile sui rigurgiti di violenza bellica era che questa fosse stata ordinata dai capi del Primer Comando Capital detenuti, in risposta ad un giro di vite della sul traffico droga. Una spiegazione che spiegava poco... Non spiegava per esempio le modalità da vera e propria guerra tra clan, con uomini e ragazzini giustiziati sulla pubblica piazza... Una spiegazione la diedero alcune organizzazioni non governative: a San Paolo si era formata una specie di milizia di ex agenti di polizia e agenti in servizio, entrata a partecipare ai profitti del traffico di droga, in forma di estorsione ai trafficanti stessi. Ecco spiegato perché in un anno 92 ex agenti rimasero uccisi... In questo contesto metropolitano le istituzioni cittadine avevano in quei giorni istituito una sorta di coprifuoco, anticipando gli orari di chiusura di scuole e uffici pubblici, per far rientrare la gente prima che facesse buio, e nei tropici il buio arriva alle sei del pomeriggio. Queste misure le autorità cittadine venivano costretti a prenderle dopo aver minimizzato sulla gravità della situazione.

Cosa avrebbe detto il Colonnello Kurtz di tutto questo: “Come si dice quando gli assassini accusano altri assassini? Mentono! Loro mentono e noi dobbiamo essere clementi con coloro che mentono?! Quei nababbi… io li odio! Li odio profondamente!” 

Come piccole risonanze
Per raccontare il Brasile con storie diverse

Storie da raccontare

Vogliamo  raccontare una storia… Una storia di donne e uomini, ognuno con le proprie tensioni morali. Donne e uomini, che si spostano verso direzioni contemplate, mentre il mondo gira vorticosamente... E' una storia fatta di tante storie, unite da un senso comune. E' la storia della Società Globale. La società delle merci. La società del “quanto”. La società elettronica, dove merci e informazioni, si vendono in un mercato, in cui niente ti appartiene per più di 5 minuti. E’ la storia di tutte le città del mondo, di un Interzona che le attraversa, dove i significati della civiltà alfabeta sono capovolti. Dove vivere e morire non sono separati da nessun filo d’ombra. E’ la storia di Calixto...giovane poeta di una Favela brasiliana che vive delle sue emozioni, della  sua arte, della sua vita.

 La musica è un valore espressivo

Calixto era un meninos da rua, un dispregiativo per indicare i bambini che vivono per la strada, con gli squadroni della morte che cercano di farli fuori come topi. E’ cresciuto a Campo Limpo, la favela più a sud di San Paolo. La vita dei bambini lì si basa sul concetto di assenza… Assenza di una vera e propria famiglia… Assenza di una casa dignitosa, si vive in baracche tirate su con mattoni e lamiera, senza acqua corrente, senza un sistema fognario… Assenza di futuro. Se ci sei nato è difficile pensare di poter uscire un giorno dagli stretti vicoli che dividono le “case” di fango e lamiera. Calixto c’è nato a Campo Limpo la sua storia è la storia dei bambini del Brasile, i meninos da rua… E’ storia di soprusi, di abbandono, di criminalità, di droga… Ma anche di salvezza, grazie alla poesia, grazie alla musica… Calixto è’ il poeta della favela.

L’uomo di sua madre!!!!??? L’uomo di sua madre!!!!??? L’uomo di sua madre non era suo padre… Per lei era stata una storia veloce con un altro. E quel piccolo appena nato era già il bastardo! Non poteva far parte di quella famiglia…non lo volevano perché suo padre non era sposato con sua madre…Allora siccome erano in fondo brava gente, invece di buttarlo nell’immondizia  lo mettono in un orfanotrofio!  Lì passa i suoi primi cinque anni di vita… Poi la madre venne a riprenderselo, e da lì è iniziata la sua vita nella favela. Campo Limpo … Già Campo limpo… appena entrato imparò a drogarsi con la colla, poi coi solventi, e poi vernici, pillole, qualsiasi cosa potesse essere utile… A 17 anni però l’esame del diploma: passa al crack però misto alla marijuana…

Finalmente smettere di fumare

Calixto attraversa così l’adolescenza… comincia come scippatore in una banda di Campo Limpo, ma fa subito carriera viene promosso a rubare auto. Ormai è pronto per essere assunto dal crimine organizzato!  Poi un giorno… Era pomeriggio. Calixto era seduto nel cortile di casa. Era con altri amici suoi che scherzava come si fa tra ragazzini, sembrava che la vita per qualche momento gli avesse restituito l’adolescenza, aveva diciassette anni, anche se parlava come un adulto: “Questa è l’ultima sigaretta che fumo – diceva agli amici.  Gli amici giù a ridere, lo prendevano in giro per quello che aveva detto, gli davano dello sbruffone. E lui si faceva serio, come per darsi un tono, “E’ così. Lo giuro!” e quelli a sbellicarsi ancora di più. Fuori, sulla strada, ad un tratto si sentono rumori di macchine impazzite e quasi immediatamente spari: “cazzo. Queste sono 2 pistole”… I ragazzi scappano a vedere. C’erano dei poliziotti con le pistole in mano e molta confusione in quel pezzo di favela di Campo Limpo. Un ragazzo era per terra in una pozza di sangue, senza vita: “Calixto è tuo fratello! E’ il fratello di Calixto” …ora Calixto è in piedi davanti a quel corpo di ragazzo esanime…che versa il proprio sangue in una pozzanghera.

Da allora Calixto ha veramente smesso di fumare. Davanti al corpo del fratello decide di riprendersi il controllo della mente. Si obbligherà, ogni giorno che Dio manda su Campo Limpo, qualunque cosa faccia, se cammina per strada o se gira per il quartiere, ad osservare la realtà per mantenere il controllo sui suoi pensieri, e si obbligherà a leggere, tutto quello che gli capita per mano, e Calisto legge, legge e impara, impara che se si stimola la memoria questa diventa infinita e ti perette di colpire gli altri, dopo un po’ la gente di favela comincia a trattarlo in modo diverso, gli chiedono di recitare o cantare una poesia o una filastrocca, Calisto comincia a inventarne di sue le mischia con i ritmi hip hop e dopo un po’ è tanto bravo che queste filastrocche rimangono in testa a chi le ascolta, e tutti le canticchiano, così Calisto diventa il poeta della Favela.

La pietra del male

Ci sarebbero tante cose da dire sul Brasile… Gli squadroni della morte, ad esempio…sono delle organizzazioni paramilitari private. Hanno un solo obiettivo: “ripulire” le strade dai meninos da rua… Ma a chi può venire in mente di organizzare eserciti per massacrare i bambini? Sono i padroni degli esercizi commerciali che organizzano questi stermini sistematici. E i ceti più abbienti rimangono indifferenti, cosa che rende lo sterminio un fatto dovuto.

In effetti c'è una differenza da fare: i meninos da rua sono i bambini che vivono giorno e notte in strada, facendo i lustrascarpe o i lavavetri, abbandonati dalla famiglia o fuggiti da casa. Poi ci sono i "meninos na rua", i bambini nella strada, che conservano legami con la famiglia, costretti a lavorare da questi in strada.  Sono questi i soggetti deboli della società globale, ultimo anello della catena sociale. In Brasile la realtà dei minori rappresenta forse una tra le più grandi aberrazioni della società globale. Venti milioni circa di bambini brasiliani, di età compresa tra gli 0 e i 14 anni vivono così sono il 40 % della popolazione compresa in questa fascia di età. un terzo di questi non arriva al diciottesimo anno di vita. Il loro sogno è diventare “aviaozinho”, aeroplanino, così si chiamano i fattorini della droga al servizio dei tanti narcotrafficanti locali.

Rodrigo ha 13 anni ed è un esempio tipico di meninos da rua: “Smettere, smettere, perché dovrei smettere con la droga? passare dalla colla al crack, alla mia età è normale amico; Io sto bene così, capisci!!?? E poi se la pietra fa male fa male a me…tu che c’entri? Vuoi che diventi pazzo pensando che forse potrei rimetterci…? Ma rimetterci cosa…? La vita? Ehih… ma non capisci che io così ci guadagno invece! Ah, Ma non capisci allora! Io per me ho già vissuto abbastanza, e fumare mi fa star bene. Ecco tutto! Non esiste questa storia di morire per la pietra… Anzi meno male che ne ho sempre un bel po’ dietro. Vuoi un tiro? Una ventina al giorno e sto bene, io sono tranquillo…!!!! Certo ci sono quelli che escono fuori di testa, ma non è così per me…Chi sono? Ma sono sballati, fuori di testa, che fumano tutto il giorno e non fanno altro. Sono talmente fuori che non sanno neanche il proprio nome…Fumare è grande, ma io so controllarmi! Non ti preoccupare so quello che faccio, amico!”

Rodrigo in realtà non è un bambino. E’ un uomo, di appena 13 anni, già tossico. Nato per imparare a sopravvivere… Addestrato a sopravvivere. Lui ancora è preso dal delirio della sua condizione: potrebbe salvarsi, ma è più probabile che ci lasci le penne. Calixto del resto alla sua età era come lui. Poi però la musica gli ha indicato la strada della vita. Dopo la morte di suo fratello ha sviluppato pian piano uno stile poetico e ritmico molto personale, i suoi testi sono tutti centrati su temi sociali legati all’ambiente giovanile e alla  condizione precaria della vita di favela. I suoi rap riescono ad essere un modello positivo di ispirazione e stimolo per i suoi coetanei. Queste semplici filastrocche rimanevano per giorni nelle teste dei suoi amici, e allora perché limitarsi alle filastrocche, perché non cercare di aiutarli comunicandogli un messaggio? E allora ha deciso: facciamo piazza pulita, o a dirla tutta, facciamo Campo Limpo…! Anche queste sono piccole risonanze.

Bum! Bum!

A campo Limpo è sera. C’è molta confusione per le strade, la polizia si accinge a formare un posto di blocco. La telecamera di un videoamatore filma tutto quello che succederà da lì a poco. C’è Reginaldo José dos Santos, detto “Rambo”, a comandare questa squadra. Il cielo terso fa da sfondo a quello che diventerà un inferno di lì a poco… Due uomini di Rambo fermano una macchina. Alla guida vi è un ragazzo di ventotto anni. Viene fatto uscire fuori e preso a legnate. Dopo un po’ lo lasciano andare. Il ragazzo si rimette in auto e mentre sta per partire: BUM!!! BUM!!! i due poliziotti gli sparano.Viene fermata un’altra auto. Un altro ragazzo. Lo prendono e lo sbattono per terra. Da quel momento inizia il suo calvario. Viene calpestato e preso a manganellate, c’è un operatore della televisione che riprende tutto, nel video si contano 38 manganellate in tre minuti. Con Rambo lì che ride e si diverte. Ad un certo punto la scena cambia. Rambo se lo trascina in  disparte, dove il video non arriva a filmare. Pochi secondi però e BUM!!! BUM!!! si sentono nitidamente gli spari che tolgono la vita al ragazzo.

La tecnica del calcione

Anna Vasconcelos è un’avvocatessa di Rio che si occupa gratuitamente di meninas, le bambine avviate dai genitori alla prostituzione, racconta così: "Stavo  seguendo una conversazione tra due ragazzine rimasi colpita da un'espressione usata come sinonimo di aborto mai sentita prima. Effettivamente è una parola strana: "calcione". Una stava raccontando all'amica che un mese prima aveva abortito. Finalmente liberata da quell'impiccio che le faceva perdere i clienti sulla strada. E come hai fatto? Volle sapere l'amica, con il calcione, rispose l'altra. Mi avvicinai incuriosita e chiesi cosa fosse. Rimasi agghiacciata dalla spiegazione. Consiste nel farsi dare un forte calcio nella pancia. È facile, e il risultato è certo, assicurò la ragazzina, che aggiunse: e non costa niente, è sufficiente trovare qualcuno che ti dia un bel calcio, tutto qui!".

Com'era bello quel motel

Com’era bello quel motel! Avevo 15 anni e mi sembrava di vivere in un film. La signora Santos ci portava spesso lì per lavorare. C’erano tante piante e luci colorate. Certo la casa di Vila Mariana era anche meglio. Poi la signora era brava ad organizzare le feste. I clienti erano sempre contenti di lei… Avevo 15 anni e mi sentivo una vip… Vivevo con mia madre, allora… Lei faceva la donna delle pulizie e dopo che ebbi lasciato la scuola, passavo le giornate ad oziare. Non avevo mai soldi in tasca. Lei lo diceva sempre: “la signora Santos ti può sistemare, tu sei bella, e ti prenderebbe subito! Se no c’è la lavanderia, puoi lavorare lì. Basta che ti decidi!” Lavorare in una lavanderia? Io? No! Non mi andava proprio. Poi lo dicevano tutti che ero bella, e che avrei potuto fare di meglio. Una sera mi trovai in una festa nella Bolla… La Bolla è il centro di San Paolo, dove ci sono i quartieri ricchi. Fuori dalla Bolla ci sono le favelas… C’era un sacco di gente, non ricordo neanche come ci fossi capitata in quel posto… Ricordo che c’era Marcia con me, che lavorava già per la signora. Quella sera aveva un vestito meraviglioso… Mi disse che era costato 500 reais, circa 270 euro… considerato che 100 reais era un mese di lavoro in una lavanderia…

Marcia si vantava della sua vita e di tutta la gente che incontrava che la faceva sentire una regina. Marcia aveva quattordici anni, ed era una delle ragazze più richieste della signora Santos. Aveva cominciato a lavorare per lei a dodici anni, fu la madre stessa che la portò dalla signora, le vendette la sua verginità, cosa che nel mercato è molto richiesta. “Tu la verginità l’hai già persa!” Mi diceva, “quindi di cosa hai paura. Con la signora diventi una regina pure tu”.  Mi chiese di provare una volta a fare una marchetta, e se fosse andata bene mi avrebbe portato dalla signora… Marcia mi disse che c’era un suo cliente che mi voleva quella sera stessa. Per 50 reais avrei potuto anche dargliela.

Era sulla sessantina. Sembrava una persona gentile, a modo. Era un proprietario di terre. Marcia si raccomandò con lui di non farmi male, perché era la prima volta. E quando glielo disse, sembrava che gli occhi gli luccicassero… Salimmo sulla sua macchina. Chiuse il vetro che lo separava dall’autista e inizio a spogliarmi… Non mi fece male, fu gentile, solo qualche sculacciata, gli piaceva sculacciare le sue bambine, come diceva sempre, ma non mi fece molto male, e poi a me quella cosa un po’ mi divertiva… Sentirmi la sua bambina, dico…

Con quei soldi comprai rossetti e sigarette… Due giorni dopo lavoravo già per la signora Santos… All’inizio ero insieme a tre ragazze del mio stesso quartiere, quasi sempre al motel… La mia prima marchetta per la signora la feci con loro… Il cliente era un industriale che aveva prenotato quattro ragazze, ma appena mi vide volle solo me e le altre rimasero in macchina per quella sera. Io ero contenta che aveva scelto solo me… Mi faceva sentire importante, anche se il cliente era un po’ violento. Gli piaceva il dominio, senza picchiarmi però, ma quando mi prendeva lo faceva con violenza…

Da quando hanno arrestato la signora Santos, sto in strada, non che batto la strada attenzione, frequento posti e ho il mio giro… Peccato però, con la signora stavo bene… L’hanno beccata per una intercettazione telefonica con uno importante industriale: Serafin de Tommazo che ha un’industria di famiglia legata al guaranà. Era un cinquantenne sposato e con un  figlio di 16 anni. Al telefono Tommazo chiese una vergine… la signora gli fece la proposta di una bimba di undici anni, offerta dalla stessa madre… Serafin de Tommazo fu entusiasta della proposta… La signora gli chiese 1000 reais per un incontro. Ma lui protestò, protesto vivamente: 1000 reais per un incontro? Una follia! Contrattarono per alcuni minuti. Poi trovarono un accordo 2000 reais per quattro incontri. Con una clausola però, che se la bimba non avesse sanguinato voleva dire che non era vergine, allora tutto sarebbe saltato, e lui avrebbe pagato una normale marchetta.

Furono arrestati tutti, anche i clienti. La chiamarono l’operazione San Paolo. La cosa fu strana perché solitamente i clienti sono intoccabili, anche perché se dovessero arrestare tutti gli uomini che in Brasile cercano sesso con le ragazzine non basterebbero tutte le prigioni… Almeno era questo che diceva sempre la polizia…

Specchi d’acqua e specchi di terra

Raccontare il Brasile si può fare come uno specchio d’acqua, dove i piccoli sassi lanciati formano delle piccole risonanze. Luogo in cui fare viaggiare una speranza. La storia di Calixto la si racconta dalla fine, comincia da oggi, dall’idea di un incontro, Sì, un incontro tra persone di paesi sparsi nel mondo; Un incontro tra musicisti, produttori indipendenti, operatori sociali che si conoscono, per caso, in una estate qualunque E decidono… che sono loro la società globale, e che attraverso loro il mondo può rinascere. E allora decidono! Decidono di andare a San Paolo per incidere un disco e per costruire una scuola di musica… E in quella scuola quindici, venti, trenta meninos delle favelas possono  imparare la musica… Possono salvarsi la vita… come Calixto. Quanto può essere importante un incontro? Così, magicamente, parte un tam tam per il mondo, che produce adesioni di altri artisti. E  ognuno di essi è l'espressione di culture diverse…per questo decisero di chiamarsi Orchestra Do Mundo.

La musica è fatta di colori, intonazioni, sonorità che possono in un certo senso cominciare a trasformare il mondo…Il Brasile è solo un luogo. Possono esserci tanti altri posti. Oggi c’è un interzona che attraversa ogni città, lì è possibile fare viaggiare una speranza attraverso la musica. Basta un incontro. Ci sarà sempre qualcuno che dirà: “Una scuola di musica per trenta bambini non potrà mai risolvere i problemi di tutti i bambini che ci sono in Brasile”…Ma è come quando lanci un oggetto in mare: se il masso è grande farà un grosso schizzo e poi imploderà, ritraendosi subito, ma se lanci un sasso piccolo, insieme ad altri piccoli sassi ci sarà un effetto di risonanza, che si perpetuerà nel tempo. E’ così che un piccolo gesto, un piccolo intervento, può invece innescare grandi cambiamenti, con le piccole risonanze che si porta dietro Pensate se tutti gli Stati  facessero così…

Altre storie da raccontare

Vogliamo raccontarvi altre storie. Quali?  Storie di piccole risonanze… Storia di donne e uomini… Storie che ne raccolgono altre... Storie che parlino di cittadini e di speranza… Sono le storia di tutti gli uomini e le donne che ancora creano i piccoli cambiamenti, e se tutti gli Stati del mondo facessero la stessa cosa ogni piccolo cambiamento diventerebbe molto più grande… e le piccole risonanze diventerebbero immense… Forse il mondo non si e capovolto del tutto! Rodrigo Baggio, giovane imprenditore italo-argentino, ha creato a San Paolo il comitato di democratizzazione informatica, un ente no profit, con l’intento di alfabetizzare le popolazioni povere del Brasile. In dieci anni ha già aperto in 17 Stati del Brasile 208 scuole di informatica dove i poveri possono ricevere una istruzione, una coscienza di cittadini, che è la prima cosa di cui è sprovvisto il Brasile. Beethoven, ha 11 anni, abita in una casa di fango di Morro di São Carlos, una favela di Rio de Janeiro. Lì è nata una scuola d’informatica e cittadinanza. Bethoveen ha seguito sia il corso base che quello speciale. Poi ha deciso di impegnarsi come volontario.


Sono piccole risonanze come questi racconti ma come cerchi di pietruzze nell’acqua diventano sempre più grandi, sempre più grandi, sempre più grandi.


PERCORRENDO LA VIA EMILIA
I migranti schiacciati da ‘ndrangheta emiliana e interessi della curia


Negli ultimi anni la provincia di Reggio Emilia ha conosciuto delle incredibili trasformazioni morfologiche e sociali. Infiltrazioni mafiose e gestioni dubbie degli spazi di proprietà della Cei mettono in discussione la sopravvivenza dei luoghi di aggregazione e di comunità. I primi a rimetterci sono i migranti, sfruttati dalla criminalità e invisibili per le istituzioni.

27 March 2016
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Una storia di mafia generalmente rimanda alle iconografie della povertà e dei quartieri ghetto malfamati. Non è il caso di questa, ambientata in uno dei luoghi che storicamente, dagli anni del boom economico, ha rappresentato un esempio di buon governo e sviluppo virtuoso del territorio:l’Emilia Romagna. “Vi sono stati importanti risultati investigativi e processuali, che hanno disvelato il fenomeno criminale presente da anni ed operativo in molte zone del territorio, con una ‘ndrangheta insinuata in tutti i settori della vita economica e sociale, con una gestione del potere attraverso una fitta rete di relazioni con rappresentanti del mondo istituzionale, delle professioni e dell’imprenditoria, in grado di soddisfare molteplici interessi, in primis quelli di natura economica”, si legge nella relazione annuale redatta dalla Direzione nazionale antimafia, che spiega come senza il controllo militare del territorio sia stato possibile alla ‘ndrangheta impossessarsi dell’Emilia Romagna.

I luoghi dove il potere si esplica non sono più i palazzi istituzionali ma i salotti, le logge, le consorterie. L’affiliazione alla famiglia costituisce la credenziale e al tempo stesso la legittimazione per concorrere alla gestione delle risorse. L’appartenenza, l’affiliazione sono elementi fortemente connessi al tessuto culturale, che diventano fondamentali per poter ricoprire un ruolo nella società civile.

Ancora la relazione annuale della Direzione nazionale antimafia: “L’immissione nel circuito legale di denaro di provenienza illecita, il radicamento nel territorio di rappresentanti del sodalizio in giacca e cravatta e dotati di competenze professionali e manageriali, il sostegno di una parte della stampa locale, il colpevole silenzio delle istituzioni, preoccupate dalle conseguenze derivanti dalla diffusione di notizie sulle presenze mafiose nei territori amministrati, la forza di intimidazione propria del gruppo operante in Emilia, hanno determinato una vera e propria trasformazione sociale, e del tessuto economico ed imprenditoriale.”

L’indagine Aemilia ha “scoperchiato” questo sistema di stupro del territorio, grazie alla colpevole interazione trasversale di quella che un tempo poteva essere definita la società attiva della regione. Il primo troncone del processo si è concluso a febbraio a Bologna, con i patteggiamenti e i riti abbreviati per i vertici della cosca Grande Aratri, quello che viene indicato come il secondo principale gruppo criminale del mondo, ancora in attesa del giudizio di primo grado. Il secondo troncone invece si è aperto il 23 marzo presso il Palazzo di Giustizia di Reggio Emilia, città configurata come l’epicentro dell’inchiesta sul radicamento della ‘ndrangheta in Emilia-Romagna. I numeri: 147 imputati, di cui 20 detenuti, e 32 parti civili tra comuni, ordini professionali e altri.
L’inchiesta non ha ben chiarito chi sono le vittime. In effetti non ci sono morti ammazzati, né guerre di mafia, almeno fino ad adesso, con lupare bianche, sparatorie, incaprettamenti, clan che si combattono per la supremazia del territorio. Ci sono state molte auto, negozi, attività commerciali fatti saltare in aria, ma dagli anni Novanta nessuna vittima. E’ la prima volta nella storia dei grandi processi di mafia che non ci sono famiglie di vittime che si presentano come parti civili.

Eppure noi, le vittime, le abbiamo rintracciate. Non sono certo quelle usuali delle tradizionali terre di mafia, ma sono di sicuro le vittime del modello mafioso reggiano, in questa nuova drammaturgia sociale, dove le maschere sono sempre le medesime, e a volte, come vedremo, persino il linguaggio e le atmosfere sono le stesse, quelle tipiche della cultura mafiosa, dove la linea di confine tra contiguità, accettazione e silenzio non è percepibile. In questo processo, come forse in nessun altro, la frase di Paolo Borsellino, sulla distinzione dei fatti dai reati, è quanto mai indicata.

Vittime migranti

In questo viaggio alla ricerca delle vittime ci accompagna Daniele Codeluppi, un attivista delLaboratorio AQ16, che a sua volta fa parte di una rete solidale di organizzazioni reggiane, dove ognuna si differenzia per una mission diversa, e al cui centro c’è l’Associazione Città Migrante. “Noi ci siamo occupati dell’aspetto umano – sottolinea Daniele – che l’inchiesta Aemilia non ha minimamente preso in considerazione. Essa cioè si è occupata dei reati ma non delle persone che ne sono state vittime. In questi anni abbiamo lavorato con quello che è risultato essere il danno sociale, prodotto dalle speculazioni edilizie”.

Già, le speculazioni edilizie, l’ambito in cui nel giro di vent’anni il territorio reggiano ha cambiato la sua morfologia sociale, generando quello che è stato definito un “default urbano”, con ricadute sui vari livelli della dimensione metropolitana: il sociale, l’economico, l’ecologico. Nel 2014 l’Associazione Città Migrante, insieme alla rete di organizzazioni solidali sul territorio, occupavano uno stabile abbandonato.

Si tratta dell’ex Magazzino Formaggi di proprietà dell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero, cioè l’ente che eroga gli stipendi ai sacerdoti, facente direttamente riferimento al Vaticano e non al Vescovo del territorio. Questo luogo è stato destinato a quei rifugiati lasciati in balia di se stessi, usciti dal programma Emergenza Nord Africa. Una volta fuori dal programma di accoglienza, chiamiamolo così, visto che anziché essere stati integrati sono stati abbandonati, così come è successo in tutte le città italiane dove le terre di mezzo hanno fatto affari sulla loro pelle, la maggior parte di questi trovavano dove ripararsi alle “Reggiane”, un enorme capannone in disuso, storiche ex officine meccaniche, adiacente alle linee ferroviarie della stazione, attuale residenza di molti senza dimora.

Zaman è l’altra faccia del saccheggio del territorio e di quel default sociale che la speculazione edilizia ha determinato, nella misura in cui la circolazione corrotta del denaro viene canalizzata verso gli interessi criminali, defraudando tutto il resto della dimensione pubblica. Zaman è dunque una vittima indiretta della cultura del malaffare, ma altri immigrati sono stati colpiti direttamente dalle tragiche vicende di questi anni.

Da Cutro all’Emilia

Ma facciamo un passo indietro. La storia, parte dall’inizio degli anni Ottanta, precisamente nel 1982, quando nel reggiano due eventi s’incrociano con un tempismo perfetto. Il primo riguarda l’approvazione del piano regolatore, il secondo invece l’obbligo di dimora del boss ‘ndranghetista Antonio Dragone, della cosca di Cutro, paesino in provincia di Crotone, presso il comune di Quarto di Sella. Da quel momento inizia un esodo dal paese calabrese verso la provincia reggiana di cittadini cutresi. Viene costruita una rete criminale tra droga, estorsioni e appalti. Inizia il saccheggio, attraverso le concessioni edilizie facili a cui partecipa il sistema imprenditoriale. In vent’anni Cutro scende a diecimila abitanti, mentre quelli emigrati nella provincia reggiana sono il doppio. Un’emigrazione fatta principalmente da manovali che negli anni hanno rinsaldato le fila dei costruttori anch’essi venuti dal sud. La cosca Grande Aratri lentamente prende il comando. Negli anni a venire, dopo una guerra di mafia condotta in terra di Calabria e l’arresto di Dragone, che poi verrà fatto fuori nei pressi di Cutro, la famiglia si consacrerà come cosca vincente.

Verso la fine degli anni novanta, quando la febbre del cemento sembra inarrestabile, la percezione sociale che il sistema mafioso sia entrato nelle dinamiche territoriali diventa sempre più stringente. Tra il 1998 e il 1999 ci furono dei segnali inequivocabili sull’inizio della trasformazione antropologica del reggiano. L’8 dicembre del ’98 Gesualdo Giuseppe Abramo, 26enne di Cutro, viene trucidato in una strada nei pressi del centro cittadino, con due colpi di pistola alla testa. Quattro giorni dopo, il 12 dicembre, il bar Pendolino, in viale Ramazzini a Santa Croce, frequentato da calabresi, viene fatto saltare in aria: 14 i feriti. Il 16 aprile del ’99 il nomade Oscar Truzzi viene ammazzato. Ma quello è pure il periodo in cui l’amministrazione comunale reggiana inizia a mettere mano al nuovo piano regolatore, che segna l’avvio della fase più cruenta, all’interno della quale possono essere ricondotte tutte le vicende legate al processo Aemilia. La zarina, così veniva chiamata la sindachessa Antonella Spaggiari, donna dalla forte personalità, si diceva, è la promotrice del nuovo disegno urbanistico. Il piano regolatore vede la luce nel 2001, e attraverso questo vengono trasformate ampie aree agricole in zone edificabili, malgrado l’entrata in vigore della nuova legge urbanistica regionale, che introduce il nuovo strumento del “piano strutturale comunale”, proprio per arginare la cementificazione. Ma nel reggiano avviene proprio l’opposto e le concessioni edilizie fioccano in modo impetuoso. Anche perché i fiumi di danaro che scorrono nelle mani dei cutresi sono così impetuosi che diventa facile impossessarsi del sistema edilizio residenziale. A ciò si aggiunga che molti imprenditori locali si prodigano per cercare i cutresi proprio per gestire false fatturazioni, e ovviamente una volta che entri dentro il sistema mafioso non ne esci più.

Speculazione edilizia e sfruttamento

“Era verso il 2007 quando intercettammo il fenomeno degli effetti sociali prodotti dalla speculazione edilizia – osserva Daniele Codeluppi – cioè precisamente quando si ruppe la filiera produttiva. Infatti la nascita dell’Associazione prese avvio proprio da questi fatti. Finchè c’erano le vacche grasse tutti lavoravano, poi quando cominciarono a manifestarsi i primi segni della crisi economica, migliaia di persone si trovarono in mezzo alla strada”. Quello che si viene a creare, proprio nel periodo indicato da Daniele, è un fenomeno che Reggio Emilia si trascina ancora adesso. Le tredicimila ditte edili, secondo i dati del 2010 della Camera di commercio, sono la chiave di lettura per ciò che è successo in un territorio che certo non è un’area vasta come quella delle grandi metropoli. Ma poi c’è un’altro fatto strano, che non abbiamo avuto modo di verificare: sembrerebbe che la Procura di Reggio Emilia nel 2007 abbia aperto un fascicolo sull’uso di documenti falsi utilizzati per i cittadini moldavi le cui indagini preliminari non sono ancora concluse. Di sicuro c’è che attraverso l’articolo 18 della Bossi-Fini, sia a cittadini egiziani che moldavi, in tutto una settantina, venne commutato il permesso di soggiorno in “protezione sociale”.
In breve, emerge il fenomeno dell’invenduto, il quale genera il fallimento di molte imprese. “Il primo maggio del 2007 – continua Daniele – organizzammo una manifestazione con un corteo autonomo rispetto a quello dei sindacati. Con noi c’erano un migliaio di lavoratori prevalentemente egiziani, ma anche rumeni e moldavi. Lavoratori dell’edilizia fatti lavorare clandestinamente e in nero, cosa che era stata denunciata anche dal Sole24ore”.
Ecco le vere vittime di questa storia di mafia, i migranti fatti arrivare clandestinamente, pagati in nero. Quando le ditte fallirono molti stipendi saltarono, per cui dovettero tornare nei loro paesi, praticamente a mani vuote. Da vittime questi si trasformano in fantasmi, come se non fossero mai esistiti. “La maggior parte delle persone coinvolte nel processo Aemilia – prosegue Daniele – già nel 2002 avevano iniziato con i loro raggiri e con lo sfruttamento. Alcune di queste figure le conoscevamo… Ci fu un caso che destò la nostra attenzione, quello di un imprenditore che con la sanatoria della Bossi-Fini regolarizzò sessanta manovali in colf e badanti, per un guadagno complessivo di 180.000 euro. In quel periodo si formò uno stretto legame tra le sanatorie e lo sfruttamento edilizio”.

Pino Ruggeri, il faccendiere

A questo punto gli attivisti dell’Associazione Città Migrante s’imbattevano in una di quelle maschere tra le più rappresentative di un sistema mafioso: il faccendiere. Si chiamava Pino Ruggeri ed era il capo della Italcantieri, un’impresa edile che aveva altre varie società collegate, sia nel ramo delle costruzioni, del movimento terra che in quello immobiliario. Ma non solo, era anche presidente dello Spezia calcio ed aveva tentato la scalata, senza riuscirvi, alla Reggiana. Manco a dirlo, era originario di Cutro. “Prendevano appalti in tutta Italia, ma anche in vari paesi europei – ci racconta Daniele – e una di queste società collegate aveva una filiale in Moldavia. Da qui importavano manodopera che pagavano col cambio moldavo, nel quale facevano rientrare anche l’affitto delle case dove questi operai risiedevano. Noi facemmo un picchetto nella sede di una di queste ditte collegate. C’è da dire che il nostro attivismo spesso ci vedeva fare da mediazione con i caporali, per far pagare le maestranze, soprattutto con gli egiziani, che non parlavano neanche l’italiano”.

Operai sfruttati, maltrattati sia fisicamente che psicologicamente, in perfetto stile da caporalato e alla fine nenache pagati. Il conteggio che Daniele ci riferisce sul numero complessivo di manovali a cui è stato sottratto lo stipendio è di circa 700.000 euro. Tuttavia nel 2010 per Pino Ruggeri iniziano i guai perché il Tribunale di Pavia dichiara il fallimento della Italcantieri. E allora lui cosa fa? Decide di spostare la sua residenza in Kazakistan, restando però a vivere a Reggio Emilia. Nell’aprile del 2014, all’uscita da un ristorante la Guardia di finanza lo arresta. L’imprenditore è accusato di aver creato un ammanco di 74 milioni di euro nella bancarotta della Italcantieri, tenendosi per sé una decina di milioni. Tutto questo realizzato grazie alle famose fatturazioni false e false comunicazioni sociali per i finanziamenti ottenuti dalla banche, in seguito alla simulazione di leasing per l’acquisto di macchinari mai comprati. Ma quella di Pino Ruggeri è una storia simbolo che in qualche modo ha visto decine e decine di imprese fare una fine simile.

Sullo sfruttamento degli immigrati, nell’ambito della speculazione edilizia reggiana, tutti, a quello che sembra, ne erano a conoscenza, dai sindacati all’amministrazione pubblica, in quel periodo retta dalla sindacatura di Graziano Delrio, attuale ministro delle infrastrutture. L’inconsapevolezza del sindaco però rientra in quella dimensione ambientale dove i fatti non sono crimini, ma dove alcuni fatti possono fomentare una cultura del silenzio, attraverso cui il crimine si aggrappa. Essere il sindaco nella fase più cruenta di una speculazione edilizia, al cui centro vi è un clan mafioso, pone non poche responsabilità oggettive. A ciò vanno aggiunti alcuni elementi emersi durante la campagna elettorale per le amministrative del 2009 che destano inquietudine. Uno per tutti è la sua famosa partecipazione alla processione in onore del SS.mo Crocifisso a Cutro. Ora, come dice il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gratteri, che il sindaco di Reggio Emilia abbia partecipato a quell’evento, in onore dei tanti residenti reggiani cutresi, non vuol dire che lo abbia fatto con l’intento di favorire la ‘ndrangheta. Ma in periodo di campagna elettorale l’intento di raccogliere voti tra i cutresi di Reggio Emilia non ne fa, a nostro avviso, un esempio di buona politica.
Ma c’è un’altra tipologia di amministrazione comunale che rimanda proprio a quelle colluse del sud Italia. E’ quella di un paese nel reggiano che ha fatto sognare e sorridere tre generazioni di italiani grazie a Peppone e Don Camillo: Brescello. Omertà, silenzi, connivenze, tutti gli elementi più caratterizzanti della cultura mafiosa in Emilia Romagna hanno trovato nuove sponde e nuove rigenerazioni, e la storia di Brescello, ne è la fotografia più caratterizzante. “Un vero e proprio inquinamento della società civile, del mondo economico e politico di quelle terre fino a condizionarne le elezioni, seppure nei piccoli comuni, dove la presenza calabrese riesce ad ottimizzare i suoi voti”, segnala la relazione annuale della Direzione Nazionale Antimafia.

Nel paese di Peppone e Don Camillo

A Brescello il dieci per cento della popolazione proviene proprio dal comune calabrese di Cutro, tra cui il boss Francesco Grande Aracri, condannato in via definitiva per associazione a delinquere di stampo mafioso, e fratello di Nicolino, “boss dei boss”. Lì, la famiglia aveva costituito il suo quartier generale, tanto da determinare le dinamiche stesse del sistema politico locale. Infatti la contiguità tra l’amministrazione comunale, guidata dal sindaco Marcello Coffrini e la cosca ha generato la nascita di una commissione prefittizia.

 La 

straordinaria assimilazione culturale, anche nel linguaggio, di questa borghesia mafiosa del nord con i caratteri della cultura mafiosa meridionale è davvero sconcertante. Intervistato dalla web tv Cortocircuito, Coffrini ha dichiarato che il boss condannato Francesco Grande Aracri è “una persona normalissima, gentile, che saluta per strada quando lo si incontra”. Una volta gettata la maschera al sindaco non resta da fare altro che dare le dimissioni, ma il paese intero lo difende. In quei giorni ai giornalisti, che intervistavano la gente per le strade di Brescello, veniva risposto che la mafia è a Roma, non a Brescello. Le stesse risposte documentate dai reportage fatti negli anni Settanta per le strade dei paesini mafiosi dell’entroterra siciliano dal giornalista Giuseppe Fava, ucciso dal clan Santapaola a Catania.

La Curia contro i migranti

E che dire di don Evandro Gherardi, il parroco di Brescello, anche lui strenuo difensore del sindaco, contro le male lingue che infangano il suo paese. C’è poco da fare, è impossibile, quando si parla di un prete di Brescello, non pensare al Don Camillo interpretato da Fernandel. Attenzione però, don Gherardi lo ritroviamo come presidente dell’Istituto diocesano per il sostentamento del clero, l’ente direttamente dipendente della Conferenza episcopale italiana padrona dell’ex Magazzino Formaggi, occupato per dare dignità ai rifugiati come Zaman.
La curia reggiana è proprietaria di vari immobili, e c’è un’altra storia assai interessante che riguarda uno di questi e che s’incrocia con il piano regolatore promosso dalla zarina. Perché in uno dei suoi terreni, dove vi era un asilo gestito da una cooperativa in convenzione col comune, veniva cambiata la destinazione d’uso e assegnata la costruzione di villette con giardino, facendo aumentare in maniera esorbitante il suo valore economico. La curia iniziò un contenzioso con la cooperativa, trascinandola in tribunale. La sentenza di sfratto arrivò nel 2005, con due anni di proroga per dare la possibilità alla cooperativa di trovare un’altra sistemazione. Nel novembre del 2007, a scadenza del periodo concesso, la curia chiede di mettere i sigilli all’edificio, mentre i genitori dei bambini, in segno di protesta, si barricano per due notti dentro la struttura, accusando la chiesa reggiana di voler cavalcare la speculazione edilizia. Sarà il sindaco Delrio a mediare, facendo concludere ai bambini l’anno scolastico in quel plesso.

Con modalità abbastanza simili, il parroco di Brescello a fine gennaio 2016 è si presentato con i vigili urbani nell’edificio dell’ex Magazzino Formaggi, minacciando lo sgombero perché l’attività di riparazione delle biciclette è “clandestina”. “All’inizio dell’occupazione – racconta Daniele – si è presentato con il suo legale. Quello che ci ha colpito è stato il suo approccio umano, più simile a quello di un proprietario di banca, venuto a riprendersi un suo bene. Ci fece capire che quella era un’area che doveva essere venduta. Il senso era: questa è casa mia e voi ve ne dovete andare. Non avendo un acquirente c’è stato una specie di accordo di non belligeranza. Poi a gennaio di quest’anno si è presentato con i vigili urbani, contestandoci che quella della riparazione delle biciclette è un’attività imprenditoriale abusiva”.

Occorre sottolineare che la riparazione delle biciclette avviene dietro donazioni spontanee e che i proventi servono per le spese di gestione del luogo, tipo il gas per cucinare e la legna per scaldarsi, ma anche per le spese burocratiche riguardanti le procedure di regolarizzazione dei documenti. “Se ci mandano via – dice Zaman – che fine facciamo noi? Dove andremo? Dovremo ritornare in strada. Non posso pensare di ritornare alle Reggiane, non è giusto… Io sto bene qui, i ragazzi dell’associazione sono bravi, li sento come se fossero la mia famiglia, ma anche tutti gli altri, anche se difficile, qui possiamo pensare ad un futuro…”

Sulle sorti di questo spazio incombe la riqualificazione dell’area nord della città, un tempo zona agricola, lasciata quasi intatta dalla speculazione edilizia delle abitazioni, ma interessata ad un nuovo processo di urbanizzazione, con l’avvio, nei pressi, della stazione Mediopadana dell’alta velocità. Servizi, terziario, esercizi commerciali stanno sorgendo come funghi, proprio per rendere la stazione Mediopadana polo di attrazione per l’intera zona. Anche sulla costruzione della stazione dell’alta velocità le trame occulte della città non si sono risparmiate. Da 38 si è passati a 79 milioni di euro per la sua edificazione. Due inchieste giudiziarie: la prima riguarda un guardiano, condannato per omicidio, affiliato alla cosca catanese dei Cursoti, la seconda concerne una serie di subappalti dati in concessione senza le autorizzazioni di legge. E poi c’è il misterioso incendio di parte del cantiere nel 2011. Fino ad oggi la stazione Mediopadana sembra una cattedrale nel deserto. Quell’enorme sistema edilizio ospita oltre che alle linee ferrate un bar e una biglietteria, con poche sparute persone che la frequentano, mentre la parte esterna è coperta di auto posteggiate, come una sorta di parcheggio libero, per chi transita nelle vicinanze.

“Quando Don Evandro Gherardi si è presentato con i vigili urbani – conclude Daniele – io gli ho fatto notare che mentre lui ci minacciava di sgomberare, papa Francesco aveva stimolato all’accoglienza dei rifugiati tutte le diocesi italiane. Lui mi ha risposto: Roma è Roma, qui è qui…!”


Zaman, dalla guerra in Libia alla morsa di ‘ndrangheta e speculazione

Dal Pakistan alla Libia di Gheddafi. Poi la guerra civile e infine a Reggio Emilia, una "clessidra dell'ingiustizia" in cui italiani e migranti sono costretti a inventarsi nuove socialità tra le sacche del malaffare


10 April 2016
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Si chiama Zaman Abdullah, ha 29 anni ed è nato a Lahore, in Pakistan. La sua è una storia del nostro tempo, che riguarda i processi migratori legati alle fughe da guerre e vessazioni. Ha vissuto la prima grande ondata di esodi nel Mediterraneo, dopo le primavere arabe, quella che in Italia fu denominata Emergenza Nord Africa (ENA) e che riguardava le persone fuggite dalla Libia in seguito alla caduta di Gheddafi. Abbiamo incontrato Zaman a Reggio Emilia, presso l’ex Magazzino Formaggi, un edificio in disuso di proprietà dell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero, occupato due anni or sono da una rete di attivisti il cui fulcro è l’Associazione Città Migrante. Lì è stata creata una piccola comunità di rifugiati, usciti proprio dal programma ENA.

In effetti sul territorio reggiano esiste una rete solidale ormai consolidata, dove ogni organizzazione svolge una sua funzione sociale differenziata. C’è il Laboratorio AQ16, centro sociale storico; Casa Bettola, un mercato di prodotti agricoli freschi e biologici, nonché luogo di ristorazione e socializzazione. E poi c’è Arsave dove confluiscono queste realtà insieme ad altre. “È un invito alla partecipazione politica dal basso”, spiegano i promotori. “Un laboratorio di teoria e pratica in cui sperimentare percorsi di pensiero e forme di lotta per determinare insieme lo sviluppo della città e costruire esperienze di mutualismo nella crisi, ormai strutturale e sistemica. Di fronte all’idea dell’unica strada possibile vogliamo dimostrare che ci sono tante strade, e se le intrecciamo l’una con l’altra abbiamo la forza collettiva per costruire la città e la società che vogliamo”.

In una giornata uggiosa Zaman e Daniele Codeluppi, attivista del Laboratorio AQ16, ci portano a visitare l’ex Magazzino Formaggi occupato. Ci sembra di scoprire una comunità integrata; allo spazio abitativo si è aggiunta “RaggiResistenti”, la ciclofficina nel quale vengono riparate biciclette, dietro donazioni, che servono a pagare le spese del gas per cucinare e della legna per scaldarsi, ma anche per il disbrigo burocratico dei documenti. Un luogo, questo, sotto minaccia di sgombero da parte della curia, di cui vi abbiamo già raccontato in una precedente inchiesta. Una sorta di “clessidra delle ingiustizie”, mediante la quale, in un tempo definito, tutto quello che togli a chi non ha niente, a chi è perseguitato dai regimi o dalla vita, ritorna in termini di ricchezza indebita nelle mani di pochi gruppi sociali, riuniti in consorterie, lobby, comitati d’affari.

“Avevo 4 anni – racconta Zaman – quando con la mia famiglia mi sono trasferito in Libia: prima a Misurata, poi nel 2005 a Tripoli. Mio padre all’inizio riparava elettrodomestici, dopo abbiamo avviato un’attività di oreficeria: ci occupavamo prevalentemente di collane e orecchini. A Misurata, studiavo e lavoravo insieme. Una volta arrivato a Tripoli invece potei dedicarmi unicamente al lavoro”.

E che dire del diritto inalienabile di una casa dove abitare. Il problema della casa in una città come Reggio Emilia assume toni paradossali, visto che è il tema centrale di Aemilia, il più grande processo di mafia del nord Italia. È la storia di una scientifica e violenta speculazione edilizia, guidata dal clan Grande Aratri di Cutro, paese del crotonese, che in vent’anni ha visto un esodo di massa verso il reggiano. Una speculazione il cui apice è stato raggiunto con l’approvazione del nuovo piano regolatore della città, partorito alla fine degli anni novanta. Aree agricole trasformate in edificabili, zone di interesse pubblico riconvertite in residenziali, immissione nel circuito legale di denaro di provenienza illecita, ampi settori della borghesia produttiva, come spiega la relazione annuale della Direzione Nazionale Antimafia, lanciati verso capitalizzazioni economiche illegali, professionisti e manager in cerca di fatturazioni false garantite dai cutresi. Ma c’è di più: imprese che importavano operai dall’est Europa e dal nord Africa, mantenendoli in stato di clandestinità, sottopagati, ovviamente in nero (in tantissimi casi proprio non pagati), maltrattati e schiavizzati dai caporali. Sono questi i pilastri su cui si è sventarto il territorio di Reggio Emilia, mediante un’espansione edilizia che non corrispondeva ai bisogni abitativi.

Da Reggio Emilia alla rovescia, un’analisi condotta dalla rete solidale, leggiamo: “Negli ultimi trent’anni il suolo abitativo è più che raddoppiato e nei primi 5 anni del piano regolatore del 1999 si è costruito il corrispondente numero di immobili sorti a Bologna in 10 anni. Molte di quelle case sono tutt’ora invendute perché edificate non per garantire il diritto all’abitare ma per tutelare profitti e interessi privati…” Anche perché dal 2008, quando è entrata di scena la crisi economica, molte di quelle imprese edilizie reggiano-cutresi sono fallite. “A Reggio Emilia – sottolinea Daniele Codeluppi – ci sono stabilmente circa 500 persone senza fissa dimora che dormono in giro per la città. Un centinaio di questi bivaccano in un ex capannone industriale in disuso, le Reggiane, un’area adiacente alla stazione, ed è proprio lì che abbiamo intercettato Zaman e gli altri che oggi vivono qui…”

“La vita in Libia era serena, – continua Zaman – mi sentivo come se fossi nel mio paese, anche perché avevo tanti amici libici, per quanto vivessi senza documenti. Da minorenne ero registrato nel passaporto di mia madre, dopo rimasi senza alcun tipo di certificazione di identità. Ma lì era un fatto comune, perché nessuno controllava, e tanti stranieri vivevano nella mia stessa situazione, anche se formalmente bisognava avere un visto di residenza.”

L’accoglienza dei rifugiati, in Italia, rientra in una sorta di cultura dell’emergenza, e le risorse che circolano tra pubblico e privato sociale non sono quasi mai funzionali ai principi di integrazione sul territorio o di coesione sociale, ma sono destinate ad alimentare le attività delle organizzazioni territoriali che diventano gestori. È insomma la storia delle terre di mezzo che in ogni città hanno specifiche declinazioni. Così la cultura dell’emergenza usa concetti che nella realtà non possono essere tradotti, come ad esempio quello della “transizione”. I programmi di accoglienza italiani, dallo Sprar in poi, si configurano come una fase di transizione, attraverso cui portare il rifugiato da una situazione di precarietà ad una di autonomia. Ma tutto questo diventa un bluff, poiché il sistema sociale italiano non è attrezzato a questo scopo. Non esistono infatti progetti di sviluppo territoriali, con agenzie dedicate, che possano indirizzare i talenti, le competenze, le abilità di cui sono portatori i rifugiati. Si pensi a come l’artigianato italiano in crisi di vocazione potrebbe rinascere con programmi di riqualificazione, investendo proprio su quelle abilità di cui sopra.

“Nel 2011, quando cadde Gheddafi, – ricorda Zaman – la situazione si complicò parecchio. Uscire per strada era impossibile, soprattutto per chi era straniero. C’erano tantissimi posti di blocco, i poliziotti erano alla continua ricerca di oppositori al regime. La gente sembrava impazzita… Hanno ucciso quattro amici miei senza motivo. Eravamo costretti a restare chiusi in casa, senza poter uscire. Ma avevamo paura anche restando dentro poiché sentivamo le urla che provenivano dalla strada.Però bisognava uscire per cercare almeno il cibo per mangiare. La mia famiglia era costituita da mio padre, mia madre, tre fratelli, una sorella, uno zio e le sue tre figlie. Ero io che avevo il compito di andare in giro per recuperare il cibo, perchè parlo l’arabo: in questa situazione siamo rimasti diversi mesi… Un giorno la polizia è entrata dentro casa, essendo orafi, avevamo molti materiali come oro e argento che facevamo arrivare dal Pakistan: i poliziotti hanno rubato tutto e ci hanno incendiato pure l’auto”.

Una delle storie che ci raccontano come le consorterie legate alle borghesie mafiose delle città deprivano i sistemi urbani, gestendo la circolazione delle risorse, è quella dell’AIER, associazione d’impenditori edili reggiani, tutti cutresi. Perché il saccheggio metropolitano è stato consumato senza spargimenti di sangue, come nelle migliori tradizioni mafiose. La cosca ha adottato il lobbismo come vettore di sviluppo degli affari sporchi. Ma in questa vicenda c’è un elemento in più. La nascita di questa operazione fu direttamente proporzionale alla campagna elettorale per le amministrative del 2009, che vide la rielezione di Graziano Delrio, attuale ministro delle infrastrutture. Lo scenario è quello di una città dove centinaia di appartamenti – edificati dai cutresi o dalle coop – sono invenduti, rappresentazione di un sistema imprenditoriale crollato. L’Aier nasce proprio per questo, per vendere l’invenduto dei cutresi al Comune, per poi essere riconvertito in edilizia popolare. È il maggio del 2010 e siamo alla vigilia delle elezioni. Colui che diventerà il gran maestro dell’operazione si chiama Antonio Rizzo, della Rizzo Group SpA, affiliata ad Unindustria.

“La nostra famiglia – prosegue Zaman nel suo racconto – non poteva fare altro che andare via dalla Libia. In fretta e furia trovammo riparo in aeroporto dove dei funzionari recuperarono dei documenti di fortuna, per tornare in Pakistan. Io, mio zio e uno dei miei fratelli decidemmo di restare, gli altri partirono. Per un mese e mezzo lavorai da un amico pakistano come operaio in una impresa di ceramiche. Visto che non si poteva camminare per le strade, perché si rischiava la vita, dormivo sul posto di lavoro. Poi sono riuscito a recuperare dei soldi che degli amici mi dovevano e così mi sono pagato il viaggio in barca per me e i miei.”

I numeri di cui Antonio Rizzo si vanta di poter portare, durante l’inaugurazione dell’Aier, sono sconcertanti: 318 imprese già affiliate e altre 200 in arrivo. C’è da ricordare che il fratello Carlo era uno di quelli che nel 2005 era entrato nel pool di imprenditori che avevano acquisito la squadra di calcio Reggiana dopo il fallimento, operazione condotta dal sindaco Delrio appena eletto. Antonio Rizzo diventa l’ombra di Delrio, lo incontra spesso e volentieri, gli organizza il viaggio a Cutro in onore del Santissimo Crocifisso, acquista tre giorni prima delle elezioni una pagina del Sole 24 Ore dove campeggia una sua foto insieme al sindaco, con un messaggio in cui plaude al progetto bipartisan per l’acquisto di centinaia di appartamenti sfitti dei cutresi. Rizzo partecipa persino ad una manifestazione antimafia, per stare vicino al sindaco da eleggere, dichiarando che non tutti i cutresi sono ‘ndranghetisti. Delrio viene rieletto e l’anno dopo fa rispondere al suo assessore all’urbanistica che i soldi per questa operazione non ci sono. Ormai è destinato ad entrare nel giro nazionale della politica… l’affare sfuma. I principali associati verranno inquisiti nel processo Aemilia. Antonio Rizzo non viene sfiorato dalle inchieste: continua a dichiararsi contro la ‘ndrangheta. E gli appartamenti sono rimasti invenduti.

“Quando ci siamo imbarcati – continua Zaman – eravamo in 258 persone, il viaggio è durato 30 ore. Una situazione davvero difficile perché non si poteva né mangiare né bere, né fare i bisogni. In più mi veniva continuamente da vomitare. E pensare che in mezzo a noi c’era una donna incinta. Era una sensazione brutta perché ti sentivi malato, soprattutto quando la barca faceva su e giù e l’acqua entrava dentro, mi venivano continui brividi di freddo. Due notti e un giorno in cui era costante la sensazione di morire. Poi grazie ad una barca della Guardia costiera siamo arrivati a Lampedusa, dove siamo rimasti 7 giorni. Poi 15 giorni a Bari.”

Se una città come Reggio Emilia, come abbiamo visto, sprofonda in un buio antropologico, dove i diritti inalienabili vengono sacrificati agli interessi occulti, all’interno dei quali sembra ci sia una gara per entrarvi dentro, di quelli che un tempo venivano chiamati colletti bianchi, con i sistemi politici locali che “giocano sullo stesso tavolo” col miglior offerente, la vita di Zaman e di tutti gli altri, stranieri e non, che sono i soggetti fragili delle comunità urbane, quanto possono valere alla fiera dell’est? “Quando è nata l’associazione Città Migrante, intorno al 2007, – osserva Daniele – abbiamo iniziato delle vertenze sindacali spontanee, senza nessuna struttura organizzata alle spalle, cercando di difendere quei migranti sfruttati come schiavi dai caporali delle imprese di costruzione che edificavano a più non posso. Oggi un pezzo della nostra organizzazione è diventato ADL Cobas… In questi mesi abbiamo portato a termine la vertenza della Composad (Vidana, in provincia di Mantova,ndr) con un accordo siglato tra l’azienda, i lavoratori e la cooperativa Vidana Facchini. Abbiamo ottenuto garanzia occupazionale per tutti gli attuali addetti per almeno 24 mesi, anche in caso di cambio di appalto, applicazione piena ed integrale del CCNL, avvio di un confronto di secondo livello su questioni organizzative ed economiche aziendali… ” Adesso comprendiamo un pò meglio il significato di quelle parole del laboratorio Arsave. Perché questa è davvero una idea diversa di città.

“A Reggio Emilia sono stato accolto presso il centro Papa Giovanni XXIII, nel programma ENA per un anno e otto mesi. Lì ho imparato l’italiano e dopo aver ricevuto la protezione umanitaria sono rimasto in mezzo ad una strada. Per quasi un mese ho vissuto alle Reggiane. Mio fratello e mio zio se ne sono andati in Germania ed io sono rimasto qui. Loro stanno bene, hanno un lavoro e una casa… Adesso sto prendendo la patente. Grazie ai ragazzi dell’Associazione sto facendo il mediatore con i richiedenti di Mare Nostrum, presso lo stesso centro dove anch’io sono transitato per la protezione internazionale. Mi occupo della ricostruzione delle storie per la Commissione territoriale di Bologna. Mi pagano con i Voucher.”

Ma ogni viaggio dentro le città italiane dove si erge la clessidra delle ingiustizie non può che concludersi con una chiave di lettura del nostro tempo: anche qui esiste la rimarcata differenza tra un “noi” e un “loro”. Noi donne e uomini occidentali assaliti da loro, invasori migranti, che ci espropriano della nostra identità di popolo.
“Io sono molto speranzoso per il mio futuro, e un giorno mi piacerebbe avere una famiglia. Non m’importa di avere una moglie musulmana, l’importante è che creda in una religione, perchè la religione dice che nel vivere è imporante aiutare gli altri…”