Viaggio a ritroso tra i fatti intercorsi dalla fine del 2015 all’estate del
2016, che raccontano della tragica involuzione nei rapporti tra Europa e Medio
Oriente, tali da rappresentare un punto di non ritorno
di Marco Marano
Piano di lavoro
·
Introduzione
·
Due
popoli turchi dopo il golpe pilotato
·
Storia
di un attentato annunciato
·
La
disfatta di Istanbul
·
Ankara:
quando il giornalismo sfida il potere
· Il popolo kurdo sotto
feroce attacco, tra la Siria e la Turchia, per impedire l’autonomia regionale
·
La democrazia comunitaria
kurda come nuovo modello di convivenza mediorientale
·
Illeciti e depistaggi
della famiglia Erdogan tra l’Italia e la Turchia
· Il
sanguinario dittatore amico dell’Italia che inquina le prove dell’omicidio di
un italiano
·
Una bandiera bianca per
difendere la cantina della barbarie
·
Le diverse facce
dell’orrore mediorientale
·
Uomini, donne e bambini
come bestie sui confini tra Medio Oriente e Europa
·
Accusata
dall’Onu per le stragi dei civili e pagata dall’Europa per fermare i rifugiati
·
La strategia jihadista
del terrore: colpire l’occidente
·
L’Isis attacca Istanbul,
dopo anni di partnership con la Turchia
· Gli intrecci italiani nella guerra dello Yemen
· Gli intrecci italiani nella guerra dello Yemen
·
La
vera guerra di resistenza democratica all’Isis combattuta dal popolo kurdo
·
In
quei tre giorni di metà novembre
·
Le
guerre mediorientali in Europa tra rabbia, tristezza ed inquietudine
·
Il
presidente vince in Turchia le elezioni del terrore
·
La
guerra dimenticata dello Yemen
·
Come affiliarsi all'Isis
·
La Turchia e i suoi
misteri in odore di servizi segreti
· Le guerre mediorientali
tra la cattiva coscienza e gli interessi dei governi occidentali Intorno
al Medio Oriente
·
Cronache mediorientali
· · Una strage per la tensione
·
Turchia: vietato protestare
·
Tra tumulti e proteste
·
Morire
per essere un giorno liberi
· Kombatt Kurdish
Introduzione
Gli eventi che
hanno caratterizzato i mesi a cavallo tra la seconda metà del 2015 e l’estate
del 2016, rappresentano un punto di non ritorno della nostra storia
contemporanea. Da un lato c’è l’inettitudine della classe politica europea
incapace o disinteressata a salvaguardare i basilari principi su cui la stessa
Europa è nata: democrazia, stato di diritto, coesione sociale, salvaguardia dei
diritti umani e civili. Come controcanto vi sono le contraddizioni dell’area
mediorientale, governata da guerre sempre più cruente, dittatori e autocrati
corrotti. Sono proprio questi i migliori partners dei governi europei, i quali
vendono armi ai paesi in guerra, fomentano le distruzioni sociali e ambientali
e poi quando la gente perseguitata fugge, essi ergono muri e si chiudono in
quella fortezza di avorio che si sono costruiti. Una fortezza che fa il verso a
quella parte di opinione pubblica che trafitta dalla crisi economica e
finanziaria, anziché vedere la causa del proprio disagio nell’incapacità delle
classi politiche, funzionali ai grandi gruppi finanziari, individua nei
migranti che fuggono il motivo della propria precarietà percepita prima che
reale.
In questo
contesto si erge il terrorismo del sedicente Stato islamico: Isis, Is, Daesh o
come lo si voglia chiamare, che ha distrutto migliaia di vite innocenti in
Europa come in Medio Oriente, in Africa come in Asia centrale. Le sue stragi vengono
narrate come una guerra ai valori del sistema occidentale, mentre se di guerra
si deve parlare questa è prima di tutto contro gli stessi musulmani, proprio
nelle terre mediorientali. E’ una guerra di potere, invece, prioritariamente
condotta contro i potentati arabi partners dell’occidente, che in Europa ha uno
scopo promozionale, cioè quello di rinsaldare le fila e fare proseliti…
Poi ci sono i
media mainstream occidentali che giocano un ruolo fondamentale nel “promuovere
la guerra di civiltà” e nel raccontare i fenomeni migratori attraverso un
processo di manipolazione semantica che ha ribaltato i piani di significazione:
la sindrome dell’invasione, fenomeno quanto mai fuori dalla realtà. Il
referendum sulla Brexit in Gran Bretagna è uno degli esempi tra i più
inquietanti, dato che pezzi di popolazioni meno urbanizzate, meno scolarizzate
e affette da analfabetismo funzionale, hanno votato per l’uscita del paese
dall’Europa convinti che il loro problema fosse l’invasione dei migranti… E
così anche in altre parti d’Europa vi è stata l’emersione di nazionalismi,
nuovi fascismi ed un sentimento xenofobo e razzista che fa leva sugli istinti
più primordiali e non sulla ragione, in una epoca iper-tecnologizzata e
scientista.
La Turchia,
paese membro della Nato, in qualche modo è diventato il polo d’attrazione e
forse anche il luogo di sintesi di tutte queste contraddizioni, anche
simbolicamente, dato che è quello che segna il confine geografico tra Europa e
Medio Oriente. In pochi mesi in questo paese vi è stata un’accelerazione della
trasformazione antropologica, in atto ormai da qualche anno, che segnerà una
linea divisoria tra i processi storici. Un paese dove per un secolo laicismo e
islamismo hanno convissuto nel segno del rispetto reciproco, ma dopo un
ventennio di interposizioni, il suo leader islamico, eletto dalla metà del
popolo musulmano, è riuscito ad affermare sulle istituzioni una cruenta
dittatura, annientando la componente laica della società… Questo dittatore è
stato pagato dall’Unione Europea per impedire ai rifugiati di “invadere”
l’Europa. Questo dittatore si è reso responsabile di atroci crimini contro
l’umanità. Questo dittatore è considerato un partner affidabile dall’Unione
Europea e degli Stati Uniti. Questo dittatore, attraverso la sua intelligence,
è stato per anni partner di quel sedicente Stato islamico che secondo i media
occidentali ha dichiarato guerra all’Europa. La crisi o la morte del modello europeo, insomma, non sono
rappresentate dalle stragi jihadiste ma dal potere e dalla potenza acquisiti da
questo dittatore…
Sulla Turchia,
porta tra Europa e Medio Oriente, si sono concentrate la parte prevalente delle
nostre cronache, dei nostri servizi giornalistici, scevri dall’approccio
mainstream, ma tesi a collegare fatti, personaggi, luoghi in modo trasversale,
e con l’utilizzo di fonti web dedicate, come nella prassi del progetto
giornalistico “Radio Cento Mondi”.
Due popoli
turchi dopo il golpe pilotato
Le modalità con cui è stato condotto il fallito golpe in Turchia del 15
luglio rappresentano la prova stessa che è stata una operazione pilotata,
attraverso cui gli ufficiali golpisti in comando sono caduti in una trappola
ben congeniata, in perfetto stile MİT, l’intelligence turca.
Bologna, 19 luglio 2016 -
Sgombriamo subito il campo dalle ambiguità del caso: è nostra convinzione che
il tentativo di golpe attuato venerdì 15 luglio in Turchia sia stato pilotato
dagli uomini dei servizi segreti del MIT. Le prove di questa operazione di
intelligence difficilmente salteranno mai fuori. L’unica possibilità forse
saranno i 100mila documenti cheWikiLeaks ha annunciato di
pubblicare presto sul sistema di potere turco. Esistono però un insieme di
notizie fatte filtrare da fonti più o meno attendibili che fanno da sponda a
fatti incontrovertibili, che hanno un peso enorme, poiché se messi in fila uno
per uno non possono che essere indizi in un processo di interpretazione
induttiva. Come si dice tre indizi sono una prova, e qui ne abbiamo decine.
Sullo
sfondo vi stanno i soggetti di questa storia: un presidente, un apparto
pubblico e un popolo. Il primo, Recep Tayyip Erdoğan, al potere da un
ventennio, di fede musulmana sunnita, vicino ai Fratelli musulmani, si è reso
protagonista di un accentramento del potere che lo ha trasformato in breve
tempo in un autocrate. Un accentramento costruito su due fatti: da un lato il suo
arricchimento personale e familiare, attraverso varie azioni illecite, tra
speculazioni edilizie e vendita di petrolio di contrabbando, con inchieste
ancora aperte. Dall’altro, le vicende legate alla vendita di petrolio fatto
arrivare tramite gli accordi con l’Isis, di cui il collettore era proprio il
figlio del presidente, erano gestite dal MIT, come il traffico di armi e il
passaggio dei foreign fighters, attraverso quelle che sono state chiamate
“le autostrade della jihad”, tra Istanbul ed il confine siriano.
L’accentramento
del potere, costruito sul ruolo del partito di Erdogan, l’AKP, diventato
partito-stato, ha avuto possibilità di svilupparsi grazie ad uno strano mix di
politiche neo-liberiste e islamizzazione forzata di un paese che storicamente
si è contraddistinto per sintetizzare al suo interno la tradizione musulmana
ottomana con il laicismo kemalista
del fondatore dello Stato Mustafa Kemal Atatürk. I fatti ci dicono che in
Turchia, al di là delle correnti islamiche o nazionaliste organizzate, più o
meno oltranziste, al di là dei colpi di stato del passato, l’anima musulmana
del paese ha convissuto per un secolo con quella laica e questo sia all’interno
degli apparati dello Stato, cioè burocrazia, sistema giudiziario, apparato
militare, che nella società, con i partiti espressione delle due differenti
visioni, ma soprattutto con un popolo diviso a metà, che in qualche modo nei
decenni si è rispettato.
L’icona
del fondatore dello stato turco, il laico Atatürk, che campeggia
dappertutto nelle città turche, è stata l’espressione di questa sintesi. Icona
che si è frantumata proprio la sera del golpe pilotato, quando cioè nelle
strade di Istanbul e Ankara non è sceso il popolo in quanto tale ma la sua
componente musulmana, il resto si è rintanata in casa ad attendere gli eventi.
Quest’ultimo è il fatto centrale di questa storia poiché la componente
musulmana è diventata il popolo in quanto tale, che legittima il potere del
presidente autocrate, da più parti ormai chiamato con la denominazione di sultano.
Un processo di trasformazione antropologica che non poteva che essere attivato
attraverso un evento straordinario di violenza di massa come un golpe non
riuscito…
L’islamizzazione
forzata dal sultano ha prodotto però in pochissimi anni uno scontro istituzionale
che ha riguardato prima che le gerarchie dell’apparato militare o di polizia
soprattutto il sistema giudiziario, anch’esso spezzato in due tronconi: quello
legato all’AKP e quello diciamo così indipendente. Fu proprio il pezzo di
magistratura indipendente a fermare la speculazione edilizia sul Gezy Park, che
nei piani del sultano doveva far posto ad una moschea, un centro commerciale ed
una caserma ottomana, e che portò migliaia di giovani laici a protestare.
La prima fase dell’accentramento del potere ha
riguardato l’annullamento della libertà di stampa, attraverso la chiusura dei
giornali e l’arresto indiscriminato dei giornalisti sganciati dal
partito-stato, cosa abbastanza semplice da effettuare in quanto corpi estranei
al sistema di potere. Più difficile la possibilità di cambiare la Costituzione
in senso presidenziale, cosa non riuscita al sultano proprio a causa dei centri
di potere istituzionale a lui avversi.
E qui
entriamo nel vivo della questione, poiché questa sorta di scontro istituzionale
con l’apparato militare stava per arrivare al punto di svolta o quanto meno la
resa dei conti con i militari non fedeli alla linea diventava il possibile
viatico per una epurazione totale del sistema pubblico. Ecco che colonnelli e
generali venivano avvisati pubblicamente che in agosto ci sarebbe stato un
complessivo riordino delle gerarchie. Quei colonnelli e generali avversari del
sultano avrebbero perso posizionamento, potere e privilegi garantiti per
decenni in quanto alti esponenti di un apparato militare che tradizionalmente
in Turchia ha sempre avuto una certa autonomia dal potere politico. Ecco che
l’epurazione di questi centri di potere per essere possibile aveva bisogno di
una situazione assolutamente straordinaria, insieme appunto alla trasformazione
antropologica di un pezzo di popolo, quello musulmano, nel popolo turco in
quanto tale…
L’unica
possibilità insomma per far sopravvivere il potere dei militari da
estromettere non poteva che essere un golpe… Come diceva un membro dello staff
di Nixon, protagonista dello scandalo Watergate: “se li tieni per le palle il
cuore e la mente seguiranno…”
La
particolarità di questi golpisti è che volevano farlo passare per un atto
compiuto in nome del laicismo, della democrazia e dei diritti civili non
rispettati… Dei militari che compiono un colpo di stato per far rispettare la
democrazia? Non è forse questo un ossimoro? E poi la Turchia è un paese Nato,
dove vi è una delle basi americane più importanti nel quadro dei
conflitti mediorientali: Incirlik. Qui solo ad operazioni avviate è stata
staccata la corrente, non dai golpisti ma dalle autorità fedeli al sultano.
Quindi è presumibile che gli Stati Uniti, che hanno il controllo aereo in
Turchia, non sapessero cosa stesse succedendo? E le tardive dichiarazioni della
Casa Bianca di “appoggio al governo liberamente eletto” potrebbero avere una
rispondenza con i proclami dei golpisti che inneggiano alla democrazia?
Ma in
quel 15 luglio le anomalie organizzative si sono susseguite come in un copione già
scritto, per un colpo di stato tecnicamente improbabile, se si pensa che
persino il progetto del golpe Borghese in Italia fu meglio concepito, il che è
tutto dire… Da dove è nata la convinzione da parte di militari con una assodata
esperienza e non certo sprovveduti che un golpe con un piccolo pezzo di uno
degli eserciti più potenti al mondo potesse riuscire? E se a questo aggiungiamo
che i soldati semplici erano ragazzi di leva che non avevano idea di cosa
stessero facendo se non una esercitazione, la sicurezza di poter riuscire
nell’impresa da dove nasceva?
E’
stata ripetuta da tanti l’assurda stranezza di un golpe effettuato alle 22 e
non in piena notte. Sono filtrate indiscrezioni sul fatto che le operazioni
erano state effettivamente puntate prima dell’alba, ma qualcuno sembra avere
avvisato i promotori che il colpo di stato doveva essere anticipato. Da chi? E
perché? Come è possibile la riuscita di una presa del potere violenta se non
saboti nell’ordine: linee telefoniche, internet, corrente elettrica? Com’è
possibile che militari di lungo corso possano pensare di compiere un colpo di
stato senza pianificare perfettamente le due operazioni fondamentali, cioè
accerchiare e arrestare il presidente in carica e i membri del governo? Sono
invece arrivati in ritardo nell’albergo di Marmaris dove Erdoğan era
in vacanza, poiché era già partito… E comunque quando sono arrivati hanno fatto
esplodere qualche ordigno senza pensare di accerchiare l’abitato… E che dire
della dislocazione dei carri armati a Istanbul disposti non in luoghi
nevralgici della città?
Così,
il sultano, prima che succedesse era già a conoscenza di quello che stava
accadendo. Con una tempistica straordinaria prende un aereo prima che i
golpisti arrivassero ad arrestarlo, si mette in contatto con la CNN turca e
tramite un cellulare fa il discorso alla nazione chiamando alla mobilitazione
il popolo turco…
Una
volta rientrato il pericolo, nel giro di 48 ore sono state arrestate quasi
diecimila persone, tra militari, poliziotti, magistrati e funzionari pubblici.
Ma come si fa a realizzare una mega retata di queste proporzioni in questo
breve tempo senza una pianificazione a monte di giorni, sia nella compilazione
delle liste di proscrizione che per ciò che concerne mezzi e uomini da
impiegare e logistica? Evidentemente era tutto pronto… Ma al di là di questo
cosa c’entrano magistrati e impiegati pubblici in un tentato golpe? La
motivazione è stata che sono tutti uomini seguaci di Fethullah Gülen,
il ricchissimo ex imam ed acerrimo oppositore del sultano, rifugiato negli
Stati Uniti, che Erdoğan ha
accusato, chiedendone l’estradizione, di essere l’ispiratore e l’organizzatore
del tentato golpe…
Le
ultime notizie ed immagini sono raccapriccianti: soldati arrestati, denudati,
sdraiati e linciati come animali, in perfetto stile da campo di concentramento
nazista, il sindaco di una cittadina giustiziato, arresti sommari casa per casa
ed il popolo musulmano che nelle piazze chiede la condanna a morte… Di quale
colpo di stato stiamo parlando?
Storia di un
attentato annunciato
A poche ore dall'attentato all'aereoporto di Istanbul l’Emirato del Caucaso
sembra essere l’organizzazione di provenienza degli attentatori. Il dato
inquietante è che alcuni dei suoi esponenti sono stati a lungo protetti
come esuli dal governo turco, poiché ricercati dall’intelligence russa.
Bologna, 1 luglio 2016 - Sembra ormai chiara la matrice dell’attentato
costato la vita a 42 persone e il ferimento di altre 230. I tre terroristi che
si sono fatti esplodere ieri l’altro sono un russo di origine cecena un uzbeco e un kirghiso. Il russo,
identificato come Osman Vadinov, sarebbe arrivato in Turchia da Raqqa, la
capitale dell’Isis in Siria, nel 2015. Alcune fonti giornalistiche turche hanno
in realtà smentito che Vadinov fosse russo ma originario del Daghestan,
repubblica russa confinante con la Cecenia, collegato direttamente alla mente
dell’attentato terroristico Akhmed Chatayev, ceceno ricercato da Mosca e
considerato dalle Nazioni Unite come il referente dello Stato Islamico per
l’addestramento dei jiadisti di lingua russa.
E’ certo straordinaria la coincidenza
di questo attentato organizzato e condotto dalla filiale caucasica dell’Isis
proprio quando il presidente autocrate della Turchia Erdogan si riappacifica
con il leader russo Putin. Questo perché uno dei motivi dello scontro tra i due
paesi che si è sviluppato negli ultimi mesi, rispetto alla guerra in Siria, è
stata proprio la protezione data dalla Turchia agli islamisti dell’area legata
alla Cecenia, dopo le vicende delle guerre d’indipendenza, dove vi fu ad un
certo punto la convergenza tra indipendentisti e jiadisti,
Da queste vicende uscì fuori la
figura di Doku
Umarov, autoproclamatosi presidente dell’Ičkeria, cioè la Cecenia secessionista
e poi emiro dell’Emirato del Caucaso. Dopo la sua misteriosa scomparsa nel
2014, l’Emirato si affiliò all’Isis, contribuendo alla crescita dello Stato
Islamico nella guerra in Siria. Fatto sta che sia i jihadisti che gli
indipendentisti orfani del generale Djokhar Dudajev, trovarono rifugio proprio
a Istanbul.
Così, l’Intelligence russa, dal 2003, proprio in terra
turca, andò a cercarli, facendone fuori alcuni, come Abdulvahid
Edilgireev, l’ultimo in ordine di tempo, ucciso nel 2015. Ma nel febbraio di
quest’anno il governo russo inviava una relazione della sua intelligence
denunciando il sostegno del MIT, il servizio segreto turco, nei confronti dei
jihadisti. E non solo, perché nello stesso documento si davano indicazioni
sull’attività da parte del figlio di Erdogan circa la ricettazione del petrolio
di contrabbando rubato dall’Isis e fatto arrivare dal confine siriano in
Turchia, proprio attraverso il MIT. Così, poche settimane prima dell’attentato
lo stesso inviava a sua volta al proprio governo un documento in cui si
prevedeva a breve un attentato a Istanbul, probabilmente all’aereoporto…
Al di là di ogni dietrologia, siamo di fronte ad uno
Stato turco i cui servizi di sicurezza per anni hanno organizzato e pianificato
un sistema logistico in favore dei jihadisti proprio nella città di Istanbul, e
adesso, che sembrano essere cambiati i rapporti di forza, i nodi vengono al
pettine…
«Les assassins
que vous avez entraînés (Syrie) et tolérés commettent des massacres». Questa
frase è stata ripresa dal quotidiano francese Liberation all’interno di un
articolo sulla cronaca del nuovo attentato di ieri sera presso l’aereoporto internazionale
Atatürk di Istanbul, costato la vita, allo stato attuale, a 36 persone, con 147
feriti.
Bologna,
29 giugno 2016 –
E' una frase significativa quella che il giornale parigino ha riportato da
Twitter. Una frase importante di un cittadino il cui senso sintetizza la
situazione che sta vivendo una delle città culla della storia come Istanbul e
che nessuno degli organi d’informazione italiani mainstream si sognerebbe di
connotare. Una frase che racconta la stretta vicinanza del governo autoritario del
presidente turco Erdoğan con l’Isis, autore delle stragi, per il periodo tra il
2012 ed il 2015, e che ha visto Istanbul come snodo logistico verso il confine
con la Siria…
E’
questo infatti il contesto per comprendere la serie di attentati che da inizio
2016 hanno investito la megalopoli turca… Il 12 gennaio, presso la centrale
piazza Teodosio, nel quartiere storico di Sultanahmet, dove sono concentrate le
moschee e quindi le maggiori presenze turistiche, un uomo si fece esplodere
uccidendo 13 cittadini tedeschi. Poi c’è quella del 19 marzo, a ridosso della
piazza di Galatasaray, a pochi metri da un centro commerciale: cinque morti, di
cui due cittadini americani, due israeliani e un siriano, a questi si
aggiungano i 36 feriti, un terzo dei quali stranieri.
A
Istanbul la rete di affiliati all’Isis è estremamente strutturata, anche perché
a differenza di Bruxelles o Parigi, ha potuto ramificarsi negli anni grazie al
sostegno dell’intelligence turca: il famigerato MIT. Gli intrecci segreti tra
il governo e il sedicente Stato islamico si sono concentrati tradizionalmente
su tre ambiti legati alla Siria. Da un lato la logistica per i foreign
fighters, che da varie parti d’Europa atterravano all’aereoporto Atatürk. Da
Istanbul venivano poi portati ad Adana in attesa di varcare il confine con la
Siria. Poi i traffici: armi e petrolio di contrabbando. Su quest’ultimo aspetto
ci fu la denuncia di Can Dündar e Erdem Gül, direttore e caporedattore del
giornale "Cumhuriyet". Le rivelazioni di questi traffici, attraverso
un’inchiesta giornalistica, ai due reporter è costata un’accusa di diffusione
di segreti di stato e una consequenziale condanna a cinque anni…
La
domanda da porsi è cosa possa essere cambiato nel 2016, rispetto al passato,
tra i due tradizionali partners. Qualcuno parla di questa nuova sintonia con
Mosca, ma in gennaio e poi in marzo con Putin sembravano volersi dichiarare
guerra a vicenda...
Potrebbe
essere una ipotesi che le autostrade turche della jihad verso la Siria sono
state chiusa grazie all’accordo economico di sei miliardi di euro tra la
Turchia e l’Unione Europea, per impedire ai rifugiati di arrivare in Europa? E
potrebbe essere questo tema, cioè interrompere la partnership con l’Isis, uno
dei punti, segreti, per sottoscrivere il patto economico con l’Europa?
Fonte: Liberation
La disfatta
di Istanbul
Con l’inasprirsi del processo di islamizzazione che ha coinvolto l’intero
paese, insieme alla nuova intesa del potere autocratico con le forze
nazionaliste, e non da ultimo con la repressione delle libertà di stampa e
manifestazione del pensiero, il modello turco di Stato laico voluto dal
fondatore della patria Atatürk, è ormai finito. Istanbul, città globale e
sintesi della storia tra occidente e oriente, modello di convivenza tra
laicismo e islamismo, è ormai caduta…
Bologna, 22 giugno 2016 -
Era il primo venerdì del novembre 2013, quando per la prima volta calpestavamo
le strade di Istanbul. Le proteste al Gezy Park erano avvenute a fine maggio e
la città sembrava resistere a quello strano vento di autoritarismo, miscelato
di vari elementi: islamismo, neoliberismo, nazionalismo, corruzione,
repressione nei confronti della questione kurda… Tutto condensato nelle mani
del capo supremo della nazione: Recep Tayyip Erdoğan, che da primo ministro
diventerà negli anni a venire presidente assoluto…
Il
nostro collegamento con la città era una giovane guida, che aveva studiato in
Italia: Senih. Un ragazzo dalla faccia pulita, laico, culturalmente
anarchico, molto preparato, parlava italiano e inglese perfettamente. Uno di
quei giovani cosmopoliti che rappresentano la parte non dogmatica della città,
appunto laica. Perché il laicismo, fino a quel momento, ha rappresentato
l’elemento caratterizzante della Turchia, dividendo a metà la società:
dall'altra parte i seguaci dell’islamismo. Ma lo stato era assolutamente laico.
Così aveva voluto il padre della patria Mustafa Kemal Atatürk, fondatore
della Turchia e primo presidente, dopo la disfatta dell’impero ottomano: era il
20 ottobre del 1923…
In quel
venerdì, dopo il risveglio della prima preghiera del mattino, da parte degli
imam, la cui voce veniva diffusa dagli altoparlanti, un piccolissimo e forse
banale evento contribuì a darci la chiave di lettura di questa città che,
insieme ad Atene e a Roma, può essere considerata la culla della civiltà. Il
venerdì vi è una sola moschea a Istanbul dove i turisti possono mischiarsi ai
fedeli, quella principale di Sultanahmet, il quartiere storico, in cui
sono concentrate le moschee più antiche: dalla moschea Blu a Santa Sofia, luogo
assolutamente unico al mondo. Un quartiere storico insomma, dove dedali di strade s’intersecano creando tante
casbah senza soluzione di continuità. La sua morfologia urbana si sposa perfettamente con le atmosfere
mediorientali che si respirano nelle stradine. Dentro i mercati
all’aperto, che spuntano improvvisamente, c’è tutto il senso di quel pezzo di
cittadinanza che di commerci, anche piccoli, vive, in linea con la storia
levantina di quel porto che oggi ospita l’imbarcadero, per il tour tra la costa
asiatica e quella europea. Eppure fino agli inizi degli anni ottanta Sultanahmet era un quartiere degradato, poi in seguito ad un piano di sviluppo
urbano divenne il quartiere simbolo della città, che accoglie carovane di
turisti da tutto il mondo… Infatti è proprio lì che il 12 gennaio di quest’anno un
affiliato siriano all'Isis si è fatto esplodere, proprio nei pressi
dell’obelisco di Teodosio, nella piazza centrale del quartiere. Lì sono
concentrati una miriade di pulman organizzati dai tour operator, poiché a pochi
metri l’una dall’altra vi stanno le due moschee antiche: 10 morti e 15 feriti,
quasi tutti turisti tedeschi, fu il bilancio di quell'attentato.
Quel
venerdì, insomma, nella moschea principale di Sultanahmet, accadde
un piccolo grande evento. Come è noto, prima di entrare nella moschea
occorre togliersi le scarpe e le donne devono indossare un copricapo. Senih, la
nostra guida, si arrabbiò con un paio di turiste entrate senza questo
accorgimento, urlandogli dietro: “Io non sono musulmano, ma è
una questione di rispetto nei confronti di ciò che rappresenta questo tempio
per la gente che viene a pregare…” Se da un lato circa metà della
popolazione è musulmana, dall’altro, fino a quel momento c’era un rispetto
profondo per le ritualità religiose da parte di chi non era credente. Sembrava
una dimensione di grande solidarietà comunitaria, forse anche legata alla
fortissima identità di popolo, che poteva mettere insieme un credo millenario
come l’islamismo con il laicismo della società digitale. In quegli anni scrivevamo che questa forma di rispetto tra chi è
credente e chi non lo è poteva essere un interessante modello sociale, malgrado
i venti autoritari che stavano cominciando a soffiare.
Camminando
per le strade di Istanbul era proprio questa l’aria che si respirava: la donna
col burka accanto alla ragazza con il tacco 12 che aspettavano insieme il
bus… Dopo tutto Istanbul, come dicevamo, è una delle culle della storia
umana, e le sue vicende millenarie erano fino a poco tempo fa la chiave di
lettura dei temi del nostro oggi: Islam/occidente, democrazie/autocrazie
religiose, Europa dei popoli/economie neoliberali…
La
tendenza all'autoritarismo del “sultano” sunnita Erdoğan è stata un
crescendo straordinario nel giro di questi ultimi tre anni… La sua impresa di
islamizzare la Turchia a livello simbolico la si può far risalire proprio ai
fatti di Gezy Park, nel maggio del 2013, quando
migliaia di giovani laici occuparono il piccolo parco poiché il “sultano” lì
voleva costruire un centro commerciale ed una moschea. A quel tempo fu la
magistratura ad impedirlo, poiché ancora non era stata inghiottita
dall'autocrate islamico. C’è da dire che il Grezy
park è una fetta dell’immensa piazza Taksim, luogo della rivolta
giovanile, ma rappresenta anche la modernità. In piazza Taksim la forbice tra abbienti e
meno abbienti la si può guardare direttamente: lo shopping delle grandi arterie
adiacenti stridono con i “bambini da strada” ed una quantità incredibile di
persone praticamente “svenute” nei prati del parco. Infatti le proteste erano
in realtà un grido di allarme, contro un governo che aveva alimentato la
corruzione sistemica nel paese, aumentando le sacche di povertà, devianza e
ingiustizie.
L’autorità
costituita, attraverso una sorta di sviluppo economico urbano, implementava una
corruzione sistemica attraverso la gestione degli appalti, nelle cui maglie la
famiglia del sultano è stata trovata con le mani in pasta, facendo parlare gli
economisti di “crescita gonfiata”. Si tratta di una sorta di “neoliberismo
islamico” , dove attraverso la nuova frontiera delle opere pubbliche, che siano
moschee da costruire o ristrutturare o centri commerciali o grattacieli,
l’impetuosa circolazione di denaro viene gestita arricchendo le consorterie familistiche,
attraverso le speculazioni edilizie. Che sia islamico o occidentale, il punto è
che il liberismo per definizione produce fisiologicamente espulsione dai
meccanismi economici della società, con le conseguenti patologie sociali che
tutti conosciamo…
L’economia
drogata da corruzione e sommerso è possibile toccarla con mano tra le strade
della città. L’assenza di regole sembra un fatto sociale conclamato a
cominciare da quelle stradali che non esistono… Ma quando si cammina per quei
dedali di strade, tra bancarelle e personaggi che sbarcano il lunario come
possono, diventa difficile non pensare che questa semplicissima realtà
quotidiana, fa da contraltare al boom economico che la Turchia sembrava aver
avuto negli ultimi anni, semplicemente perché il livello di economia sommersa è
così diffuso sul territorio che ha più peso di quello reale…
Il
consolidamento dell’islamizzazione del potere voluto dal “sultano” va di pari
passo con la guerra in Siria, la cui Turchia è confinante in quella striscia a
sud del paese dove sono insediate le comunità kurde, le quali da un secolo
rivendicano, anche in Turchia, l’autonomia culturale, repressa nel sangue. Ma
la guerriglia del PKK, il partito kurdo legato al leaderAbdullah Öcalan,
attualmente agli arresti, nasconde un’altra realtà emersa da poco agli occhi
dell’occidente, anche se i paesi democratici non sono interessati a prenderne
atto. Perché tra il 2012 e il 2015 la Turchia è stata lo snodo delle
autostrade della jihad, percorse dai cittadini europei che volevano affiliarsi
all'Isis, per andare a combattere sul territorio siriano: i cosiddetti
"foreign fighters". Adana, a 200 chilometri dal confine con la Siria,
è proprio il luogo in cui si concentravano quei cittadini europei che
decidevano di andare a combattere per la jihad. Istanbul diventava il punto di
snodo logistico e organizzativo: gli affiliati turchi gestivano appartamenti,
per il periodo di attesa, monitorando i collegamenti con la Siria occupata. Non
solo. Si è poi scoperto che gli affari con l’Isis riguardavano il traffico di
armi e il petrolio di contrabbando…
Formalmente
la guerra all'Isis viene usata da Erdoğan per assimilare nel mucchio
del terrorismo anche le istanze di libertà e indipendenza del popolo kurdo, sia
in Siria, la cui resistenza, principalmente delle organizzazioni femminili,
combatte direttamente contro lo Stato islamico, che in Turchia, contro il PKK,
con cui dall’estate scorsa ha ripreso un vero e proprio scontro armato. Sempre di più il potere diventa violento e i primi a farne le
spese sono i giornali di opposizione che vengono chiusi senza colpo ferire,
mentre i giornalisti vengono arrestati con l’accusa di attentato contro lo
stato. Proprio nel periodo delle ultime elezioni politiche nel novembre 2015, i nodi sono venuti al pettine e l’autoritarismo del regime
ha preso le sembianze di un ibrido storico, in linea forse con le tendenze del
nuovo fascismo che dall’Europa dell’est si stanno allungando ai paesi del
centro e nord Europa, coinvolgendo ultimamente persino l’Inghilterra con
l’omicidio di Jo Cox, in piena campagna antibrexit. Quello di Erdoğan
è ormai diventato un regime totalitario a tutti gli effetti dato il controllo
sui tre poteri dello Stato, l’annientamento della libertà di stampa, con
l’arresto dei giornalisti di opposizione, l’arresto di chiunque esprima un
pensiero pubblicamente contro il regime. Un nuovo fascismo di tipo islamico ma
neoliberista poiché anziché statalizzare privatizza alle cerchie e ai clan
legati al sistema di potere.
Così
arriviamo alla disfatta di Istanbul, con i fatti degli ultimi giorni, che
chiudono il cerchio e mettono la parola fine alla città cosmopolita a cavallo
tra l’oriente e l’occidente. Sono tre gli eventi che la fanno sprofondare nel
buio dell’oscurantismo autoritario. Innanzitutto c’è l’annuncio del “sultano”
che il progetto chiamato di “riqualificazione” di piazza Taksim verrà ripreso e
attuato:
“Si tratta di un imponente progetto immobiliare nel
cuore della parte europea della città, formato da un complesso di edifici residenziali
e commerciali che prevede la realizzazione della copia di una caserma ottomana
e di una grande moschea, oltre a un centro commerciale.”
Un
venerdì sera, quartiere della movida di Tophane, nel negozio di dischi Velvet
Indie Ground, è in corso una festa di presentazione del nuovo disco dei
Radiohead. Sono tutti giovani che bevono birra e alcolici vari. Arrivano una
ventina di uomini armati di spranghe e bastoni. Fanno irruzione nel locale, lo
devastano, picchiano i presenti, insultandoli di blasfemia poiché il party non
è rispettoso dei precetti dell’islam, in periodo di Ramadam… Ecco, per la
prima le due anime della città, quella laica e quella islamica, diventano
nemiche e la violenza religiosa cerca di annientare i fondamenti dello Stato creato
da Atatürk. In un video su Youtube uno degli assalitori minaccia uccisioni
apostrofando i ragazzi che partecipavano alla festa come “bastardi”. Come se
non bastasse, il commando non è stato perseguito e durante la
manifestazione, nel centrale quartiere Cihangir, per difendere la
laicità del paese, centinaia di persone sono state caricate dalla polizia
che ha usato proiettili di gomma, lacrimogeni e idranti…
Qualche
giorno dopo, cominciano ad uscire fuori dichiarazioni minacciose, da parte sia
di organizzazioni ultra-nazionaliste che anche islamiche, contro il Gay Pride.
C’è questa “Alperen Ocaklari”, un’organizzazione d’ispirazione fascista che ha
intimato alle autorità di fermare il corteo poiché viceversa ci avrebbero
pensato loro, richiamando il Ramadam come momento sacro. La manifestazione
viene vietata, ma gli organizzatori cercano di sfilare ugualmente. Neanche a
dirlo, “giù mazzate” dalla polizia: i soliti idranti e le solite pallottole di
gomma…
Con la
caduta di Istanbul, si chiude un secolo di storia in nome del rispetto tra
islamismo e laicità…
Ankara: quando il giornalismo sfida il potere
La
vicenda dei giornalisti Can Dündar e Erdem Gül, in Turchia sembra una storia
lontana perché vi è il tentativo di mettere a tacere quel giornalismo non compassato
e de-istituzionalizzato che denuncia la corruzione dei fini all'interno del
quale il sistema politico turco ha perduto il suo significato laicista: la
difesa del bene pubblico.
Bologna,
7 maggio 2016 -
Dündar e Erdem, sono rispettivamente il direttore ed il caporedattore di Ankara
del giornale di opposizione al governo autoritario del presidente Erdogan
"Cumhuriyet". La condanna uscita fuori dal procedimento penale contro
di loro è stata pesantissima: cinque anni di reclusione. L'accusa è quella
di diffusione di segreti di stato, questo perché lo scorso anno il giornale
aveva svolto un'inchiesta sul traffico di armi che il governo turco conduceva
ai confini con la Siria, attraverso i suoi servizi segreti.
I due giornalisti si erano
soffermati su questo aspetto poiché nel contesto della guerra in Siria quelle
armi erano destinate anche all'Isis, le cui ramificazioni in Turchia, da
Istanbul fino alla linea di confine appunto, erano e sono fortissime.
Ramificazioni che riguardavano prima di tutto il sistema di reclutamento dei
foreign fighters, implementato grazie alle basi logistiche dello Stato islamico
nella megalopoli turca, e poi allo smercio del petrolio di contrabbando,
prodotto dai pozzi controllati tra l'Iraq e la Siria.
Tra l'altro il direttore del
giornale, poco prima della sentenza, davanti al palazzo di giustizia, diventava
vittima di un attentato da parte di un uomo dell'Anatolia centrale,
identificato come Murat Sahin, il quale apriva il fuoco contro Dündar
ferendo però il reporter di una rete televisiva che si apprestava a documentare
il processo a carico dei due giornalisti. Ovviamente le autorità turche hanno
dirottato la responsabilità dell'attentato su qualche organizzazione
terroristica, cose se i terroristi potessero essere interessati ad un
giornalista di opposizione al regime del presidente Erdogan.
"L’obiettivo di questa
sentenza – dichiarava ai network Dündar – non è solo quello di ridurre noi al
silenzio. Queste pallottole sono state sparate non solo per mettere a tacere noi
e impedire al nostro giornale di continuare a fare il proprio dovere, ma anche
per intimidire tutti i media turchi e terrorizzare i giornalisti”.
Il popolo kurdo sotto
feroce attacco, tra la Siria e la Turchia, per impedire l’autonomia regionale
Mentre in Siria si
svolgono le elezioni legislative pilotate dal dittatore Assad, le popolazioni
civili kurde vengono massacrate nel timore che il modello di democrazia diretta
del Rojava, nell'ambito dell'autonomia regionale rivendicata dalla resistenza, possa
prendere piede
Bologna, 14 aprile
2016 - Si sono aperti ieri i seggi in Siria per votare il nuovo
parlamento. Sono circa 3500 i candidati approvati dal dittatore Assad. Dopo
cinque anni di guerra civile asimmetrica, il governo in carica sottolinea
l'importanza di queste elezioni guidate, per non lasciare un vuoto di potere
che è nei fatti, almeno sui campi di battaglia. Ma queste elezioni legislative
coincidono con la seconda sessione dei
cosiddetti negoziati di pace a Ginevra, dove a fine febbraio è stata proclamata
una tregua, anche questa un pò farsesca. Dato che la Siria parteciperà ai
negoziati all'indomani dei risultati elettorali e che i partecipanti dichiarano
di considerare queste elezioni una buffonata, gli unici che direttamente hanno
espresso il loro dissenso esplicito sul campo stanno dentro la
"Federazione del nord della Siria", composta dal popolo kurdo, dentro
questa regione autoproclamatasi autonoma, con i tre cantoni di Kobanê, Afrin e
Jazira: il Kurdistan siriano. La direzione generale dei tre cantoni ha infatti
invitato a disertare le urne, poiché queste elezioni sono palesemente
illegittime. Si ricordi che all'interno dei negoziati di pace non è stata
invitata la delegazione kurda, che sul campo è quella che ha rappresentato la
più estrema resistenza all'Isis.
GLI ATTACCHI AL QUARTIERE
CURDO DI ALEPPO
Forse è per questo che gli attacchi al quartiere Kurdo di Aleppo,
non vengono considerati, da parte dei partner occidentali, una minaccia alla
tregua, tra l'altro rispettata dall'esercito di liberazione kurdo. Così,
il quartiere Al Sheikh Maqsoud è sotto
aggressione indiscriminata di razzi e mortai,
dalle varie forze militari in campo, presenti proprio al tavolo di
negoziato a Ginevra. Ad essere colpiti sono, neanche a dirlo, i civili: donne,
bambini, anziani. Decine di morti e centinaia di feriti.
IL MODELLO ROJAVA
CHE FA PAURA
C'è poco da dire, il modello di democrazia diretta del Rojava, a
cui si ispira l'intera Federazione del nord della Siria, fa paura a dittatori e
presidenti... Fa paura ad Obama, che formalmente non può fare altro che
appoggiare l'esercito kurdo argine all'Isis, perché il suo è un modello
anticapitalistico, fondato sull'eguaglianza di credo e sulla supremazia del
mondo femminile, che costituisce la parte preponderante dell'esercito. Quel
mondo femminile che ha imposto leggi interne le quali vietano i matrimoni
forzati, che ha obbligato alla scolarizzazione tutti coloro che non sapevano né
leggere e né scrivere, che ha garantito un sistema sanitario generalizzato...
Fa paura alla Siria, e alla Turchia, tra di loro nemici, poiché il popolo kurdo
non chiede l'indipendenza ma l'autonomia regionale, attraverso cui potersi
autorganizzare e garantirsi dalle ingiustizie preponderanti in tutto il Medi Oriente.
Fa paura persino al Kurdistan iracheno, stato indipendente a tutti gli effetti,
il cui presidente conservatore e anche corrotto Massoud Barzani ha saldamente
stretto accordi commerciali con la Turchia, appunto...
GLI ASSEDI AL
POPOLO KURDO IN TURCHIA
Così, il popolo curdo sta subendo un altro assedio, quello sulla
striscia sud-orientale della Turchia, messa a ferro e fuoco dal sultano
Erdogan, nel silenzio dei paesi occidentali, che neanche commentano, poiché il
PKK, cioè il partito kurdo che si batte per l'autonomia regionale, attraverso
la resistenza armata, è sempre considerato una organizzazione terroristica. Il
problema è che l'altro assedio in Turchia colpisce indistintamente i civili:
donne, bambini, anziani. Il copione non cambia. Le ultime significative notizie
riguardano il distretto di Nusaybin. Qui l'AKP, cioè il partito di maggioranza,
ha defenestrato il governatore, in disaccordo sui metodi repressivi contro la
cittadinanza, per dare il pieno controllo del territorio all'esercito. La
strategia è quella di abbattere 200 edifici attraverso i raid aerei. Questa
città ha una popolazione di 90000 persone, di cui 60000 sfollate e le restanti
30000 ancora dentro quegli edifici che devono essere demoliti. Ma non è tutto,
perché per evitare che qualche altro governatore potesse avere delle crisi di
coscienza è stato stabilito, da un decreto governativo, di rimuovere tutti i
governatori e affidare le funzioni operative dei territori ai servizi di
intelligence e all'esercito...
Fonti: Ekurd Daily,
Kurdish Question, ANF, ANHA
La democrazia
comunitaria kurda come nuovo modello di convivenza mediorientale
Mentre proseguono
a Ginevra i negoziati di pace tra la variegata costellazione di organizzazioni
che combattono sul territorio e le autorità siriane, con la presenza ombra
della Turchia e della Russia, gli unici a non essere stati invitati, cioè le
forze di resistenza kurde, quelle che maggiormente hanno inflitto danni
militari all'Isis, si sono riuniti nel nord est del paese per creare una
regione autonoma: la "Federazione
del nord della Siria"
Bologna,
18 marzo 2016
- Il Partito dell’Unione Democratica (PYD), la principale formazione
kurdo-siriana ha riunito, nella città di Rmêlan, 150 rappresentanti delle
organizzazioni presenti in una vasta area che parte dalla striscia di 400
chilometri al confine tra la Siria e la Turchia: dal Rojava, alla regione di
Shehba, fino all'area di Aleppo. Le "etnie" presenti sono tra le più
varie: arabi, kurdi, armeni, turcomanni, ceceni, siriani.
Una vera è propria Convenzione
quella che è ancora riunita nella seconda sessione di lavori, attraverso la
quale è stata fondata una regione autonoma, che non vuole l'indipendenza dalla
Siria, anzi vuole restare ancorata ad essa, però nelle forme tipiche che il
laboratorio politico-amministrativo del Rojava ha lanciato durante l'ultimo
anno.
Il modello è quello dei cantoni
e tre sono stati individuati nell'area dove sono presenti le svariate
"etnie" che partecipano alla convenzione: Afrin, Kobane et Jaziré
Molti di questi territori sono
proprio il frutto dell'azione militare dei kurdi contro l'Isis, ottenuto da
Ypg/Ypj (Unità di protezione popolare/delle donne), ma anche dalle Forze
Democratiche Siriane.
Ma il dato più significativo è
quello relativo al modello istituzionale che è stato elaborato, cioè una sorta
di democrazia comunitaria, dove al centro del sistema c'è l'autogoverno delle
comunità. Tutto questo ovviamente si pone contro le ipotesi del tavolo di
negoziato a Ginevra, che vuole imporre un sistema a separazione etnica o
religiosa, che ovviamente manterrebbe nel futuro inalterati i settarismi e
quindi i conflitti interni.
Neanche a dirlo, naturalmente,
nessuno dei paesi presenti al tavolo ha gradito questa iniziativa: dagli Stati
Uniti, alleati delle forze di resistenza kurde contro l'Isis, alla Turchia,
alleata degli Stati Uniti ma che considera i kurdi dei terroristi, viste le
simili istanze di autonomia manifestate nella zona kurda del sud turco...
Vogliamo solo ricordare un
esempio di quello che significa democrazia comunitaria kurda, segnalando ciò
che è successo in ottobre del 2015, quando l'Assemblea delle donne di Kobane,
che ricordiamo sono le principali protagoniste della resistenza militare sul
territorio contro l'Isis, ha elaborato delle disposizioni di legge per il
Cantone. Sono stati vietati i matrimoni precoci delle bambine, organizzati
dalle famiglie, come anche la poligamia. Queste disposizioni sono state
condivise sul territorio sia attraverso forme di educazione sociale che diffuse
nelle assemblee di quartiere. L'intento è proprio quello di costruire una
società democratica basata sulle leggi delle donne...
Fonti: ANF, ANHA
Illeciti e depistaggi
della famiglia Erdogan tra l’Italia e la Turchia
Si chiama Bilal Erdogan, ha 35 anni ed è il figlio
del presidente/sultano della Turchia Recep Tayyip Erdogan. Ufficialmente si è
trasferito a Bologna con moglie e figli, nel settembre scorso, per un dottorato
alla Johns Hopkins University, iniziato, a quanto pare, nel 2007. Murat Hakan
Huzan è invece un imprenditore, oppositore politico del "sultano
turco", rifugiatosi in Francia perché perseguitato in patria. E' proprio
lui che ha depositato un esposto alla Procura di Bologna, tramite l'avvocato
Massimiliano Annetta del foro di Firenze e recepito dal Pm Manuela Cavallo.
Bologna,
18 febbraio 2016
- Nell'esposto si rivela una verità diversa da quella ufficiale, rispetto alla
presenza in Italia del figlio del sultano, rimbalzata negli ambienti
antigovernativi turchi, messa nero su bianco da Murat Hakan Huzan. Bilal
Erdogan avrebbe trasportato in Italia un'ingente somma di danaro, finalizzata a
supportare un'eventuale piano di fuga della famiglia Erdogan, nell'eventualità
che in patria fosse costretto ad una defenestrazione di popolo.
Come sa chi è informato delle
cose che stanno avvenendo in Turchia, il potere pressoché assoluto del sultano
produce continue lesioni dei diritti umani nei confronti delle istanze di
autonomia del popolo kurdo, la cui popolazione civile è repressa nel sangue nel
sud-est del paese, al confine con la Siria. Inoltre gli arresti arbitrari dei
giornalisti che si oppongono al regime ha mobilitato gli organismi
internazionali per l'intollerabile azione di un paese NATO contro la libertà di
espressione. Ed infine ci sono le questioni legate ai traffici di armi e al
contrabbando di petrolio, proprio al confine con la Siria, in combutta con
l'Isis, che ha degli strutturati insediamenti a Istanbul, protetti dai servizi
segreti del paese, per garantire anche il passaggio dei foreign fighters.
Queste ultime vicende hanno
caratterizzato il governo turco per le sue attività di manipolazione della
realtà e depistaggi. Nei consessi internazionali inveisce contro il terrorismo
jihadista e sul campo favorisce i movimenti dei jihadisti. Conduce una guerra
spietata alle istanze di autonomia del popolo kurdo, e cerca l'alleanza sunnta
con l'Arabia Saudita, proprio per combattere i kurdi in Siria, che
rappresentano l'unica resistenza militare allo jihadismo sul territorio...
L'attentato di Ankara, che ha
coinvolto un convoglio di 28 militari, e quello di Diyarbakir, sette morti,
hanno tutto il sapore di questa strategia di depistaggio, poiché vengono fatti
risalire uomini provenienti dalla Siria, che si sono fatti esplodere,
utilizzando quindi un modus operandi jihadista, che il governo turco ha
associato però alle sigle militari kurde: PKK e YPG...
Essi infatti combattono con le
armi in mano, nelle zone di guerra, poiché rivendicano un'autonomia di popolo
negata da un secolo, e gli eroici gesti delle donne nel Rojava ne sono il segno
distintivo. Niente a che vedere dunque con missioni suicide e le bombe stragiste,
fiore all'occhiello dell'Isis...
In questo modo Erdogan padre,
potrà adesso legittimare le carneficine perpetrate su uomini, donne e bambini
nelle città del sud-est, e rilanciare le stragi di innocenti per demolire le
istanze di autonomia di questo popolo da un secolo martoriato.
In effetti di robe per cui
temere una fuga improvvisa dal paese ce ne sono e come... Comunque,
nell'iscrizione al registro degli indagati del figlio del sultano, difeso
dall'avvocato di Bologna Giovanni Trombini, rientra anche un'altra vicenda di
cui si è reso responsabile il giovane Erdogan. Gli inquirenti stanno indagando
sul folto contingente armato di guardie del corpo, presumibilmente legato ai
servizi turchi, a cui non sarebbe stato consentito l'ingresso dalle autorità
italiane. Questi, una volta arrivati a Bologna, in poche ore, avrebbero
ricevuto passaporti diplomatici dalle autorità turche...
Il sanguinario dittatore amico dell’Italia che inquina le prove
dell’omicidio di un italiano
Il barbaro assassinio di Giulio Regeni ha fatto luce su quello che è oggi
il regime militare egiziano, dove il moltiplicarsi sul territorio di organismi
repressivi dediti al controllo sociale, attraverso le torture, gli omicidi e le
sparizioni indiscriminate, avvicinano il suo presidente golpista Al-Sisi ai più
sanguinari dittatori del XX secolo. Ma un aspetto macabro è rappresentato dalla
decantata vicinanza e amicizia di quest'uomo sadico e sanguinario con il
governo democratico italiano, che ne tesse le lodi, stringe affari e si accinge
a condurre l'imminente guerra in Libia al suo fianco. Questo è il motivo per
cui la verità sulla morte di Giulio non verrà mai fuori. Nel
frattempo in Egitto la classe medica egiziana, una tra le più rispettate
nella scala sociale, scende in piazza perché stanca della violenza di questo
regime.
Bologna, 14 febbraio 2016 -
I rapporti privilegiati tra dittatori e leader occidentali democraticamente
eletti sono cose antiche che provengono dal XX secolo. Ad iniziare questa
prassi, all'indomani della seconda guerra mondiale, furono gli Stati Uniti. Il
primo esempio emblematico fu il regime/bordello di Batista a Cuba, dove
gangster e mafiosi facevano affari con il beneplacido di Ike, così veniva
soprannominato Eisenhower, il Presidente/Generale, che aveva come vice uno che
già nel '53 veniva soprannominato "Tricky Dicky", Ric il truffatore:
era Richard Nixon. Fu proprio lui che da presidente, un ventennio dopo,
appoggiò, sotto la copertura della guerra fredda, il colpo di Stato in Cile di
Pinochet, uno tra i più sanguinari. E poi Videla in Argentina, Somoza in
Nicaragua...
Dal comunismo allo jihadismo, le scuse dei governi
occidentali per
fare affari con i dittatori a cavallo tra i due secoli
A quei
tempi, la scusa per fare affari convenienti con i governi autoritari e
corrotti si basava, appunto, sulla "paura" comunista
proveniente dall'est... Ma non si possono dimenticare neanche le intese
tragiche della Francia nell'Africa subsahariana, che diedero vita alla
cosiddetta "Franceafrique". La più dolorosa di queste intese fu
ai tempi del socialista Mitterand, quando i servizi segreti francesi, con
quelli americani, posero fine alla vita di Tomas Sankara, Presidente del
Burkina Faso. La Francia garantì il potere, per quasi un
trentennio, a Blaise Compaoré, defenestrato dal popolo due anni or sono.
Oggi,
nel XXI secolo, la prassi non è cambiata, ma la scusa si: non più il
comunismo, ma l'estremismo islamico, la jihad insomma. In Italia, l'esempio più
tragicamente folcloristico lo avemmo negli abbracci e nelle parole d'affetto
tra Berlusconi e Gheddafi, rappresentate in quella farsesca visita in Italia
del dittatore libico...
"La ricostruzione del Mediterraneo è nelle tue
mani!" "La tua guerra è la nostra guerra..." Sono alcune
espressioni usate dal premier italiano Renzi nei confronti di quello da lui
definito "uno statista", cioè Al-Sisi, presidente golpista, sadico e
sanguinario dell'Egitto. Quando si seppe che il cadavere martoriato del povero
Giulio era stato ritrovato, il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi
si trovava in quel momento al Cairo per un meeting tra i due paesi. Ricevuta la
notizia ebbe almeno la decenza di sospendere l'incontro.
Le prassi dei dittatori sanguinari sono sempre le
stesse
Parlavamo
di prassi, e dicevamo che dagli anni dei golpe militari sudamericani esse
non sembrano essere cambiate. Sono le stesse manipolazioni della realtà,
per cui ogni azione, ogni fatto viene contestualizzato in una narrazione
completamente fuori da ogni logica: il depistaggio. Prima Giulio era stato
vittima di un incidente stradale, poi di un normale atto criminale, ancora di
una storia di omosessualità, ed infine il depistaggio più organizzato, fino ad
adesso: una spia dei Fratelli Musulmani.
Quest'ultimo
è sicuramente il depistaggio più interessante poiché coinvolge un grande organo
d'informazione: il New York Times. Diciamo subito, per chi non lo sapesse, che
il celebre quotidiano newyorkese è molto inserito all'interno dei servizi
segreti americani, sia NSA che CIA. Spesso, soprattutto nei teatri di guerra,
ha anticipato notizie importanti, direttamente da fonti di alto rango delle
agenzie. Questo, a meno che l'intelligence americana non si sia completamente
inebetita, è chiaro che fa il gioco dei servizi e non del giornale, viceversa a
rigore di logica, senza un interesse preciso è difficile pensare che le alte
sfere dell'intelligence americana si prestino agli interessi di un quotidiano.
Detto
questo, vediamo qual è la spy story che il quotidiano americano ci ha
offerto... Due uomini, non meglio definiti, ma si lascia intendere che siano
dei servizi egiziani, si sono recati presso l'Ambasciata italiana al Cairo per
spiegare che Giulio è stato prelevato sotto casa sua da uomini in borghese. Il
ricercatore italiano ha cercato di reagire, "ha fatto il duro",
dicono, forse perché aveva qualcosa da nascondere? Non si capisce se sul suo
taccuino o direttamente sul cellulare avesse dei numeri di esponenti dei
"Fratelli Musulmani", e quindi per proprietà transitiva non poteva
che essere una spia dell'organizzazione islamica... Quindi, ecco giustificata
la tortura ed il suo assassinio...?
Se non stessimo parlando di una tragedia ci sarebbe
davvero da ridere. Un servizio segreto che arresta, tortura e uccide un
ricercatore universitario italiano, per un ragionamento transitivo... Non
sembra altro che una barzelletta. Giulio era certamente conosciuto come ormai
assodato: partecipava apertamente e senza nascondersi a riunioni sindacali,
prendeva appunti, parlava con la gente, scriveva articoli che mandava in
Italia, anche se sotto pseudonimo, faceva insomma ricerca universitaria e
controinformazione. Per un servizio segreto di un qualsiasi Stato, anche di
quello delle banane, sarebbe semplicissimo avere queste informazioni, altro che
spia dei Fratelli Musulmani...
Quello dei desaparecidos è un sistema sempre in voga
Sempre
in tema di prassi legate alle dittature sanguinarie, rientrano, nelle dinamiche
del controllo sociale, le leggi anti-protesta: non si possono cioè fare
manifestazioni non autorizzate... Ma rientra anche la duplicazione di
milizie più o meno segrete, che prendono informazioni: dal semplice
chiacchericcio nei confronti sia di egiziani che di stranieri, all'infondere il
sospetto su chiunque... Le varie articolazioni di questi organismi che lavorano
sul controllo sociale vanno dai servizi militari a quelli civili, sicurezza
centrale o personaggi legati alla criminalità, assoldati dallo Stato come
delatori. Giulio aveva il telefono sotto controllo e questo ormai è un fatto,
quindi sapevano perfettamente chi fosse e cosa facesse... Ancora più
sconcertante è la vicenda del capo di quel pool investigativo della polizia
egiziana incaricato di svolgere le indagini sulla morte di Giulio. Si tratta di
un torturatore di fama, Khaled Shalaby. Venne condannato nel 2003 dal Tribunale
di Alessandria, proprio per tortura. E fu proprio lui che derubricò
l'omicidio di Giulio a semplice incidente stradale.
E poi
ci sono le centinaia di persone scomparse misteriosamente in perfetto stile
cileno e argentino, i cui parenti per avere semplici informazioni, cioè per
saper se sono vivi o morti, devono corrompere questo o quell'altro
funzionario governativo. Le sparizioni indiscriminate
non riguardano soltanto chi professa fede di oppositore al regime ma
chiunque sia vittima di dubbio o sospetto: se fai parte di una ONG che difende
i minori o se cammini per strada con qualcuno vicino ai Fratelli Musulmani o
alla sinistra egiziana. Solo nel 2015 sono sparite 1700 persone: studenti,
giornalisti, attivisti, medici, semplici cittadini, torturati, arrestati,
uccisi...
La condizione della classe medica come chiave di
lettura
La
vicenda dei medici ospedalieri, scesi in piazza per protestare, due giorni fa,
contro la repressione del regime è forse la migliore chiave di lettura di
quello che succede in Egitto. Il fatto, che è stato stigmatizzato dal
sindacato, risale al 28 gennaio, presso l'ospedale Matariya, nel distretto a
nord est del Cairo.
Un pulman della polizia si ferma davanti all'ospedale.
Entrano 8 poliziotti, in tenuta antisommossa, alla ricerca di qualche medico.
Ne individuano due e gli chiedono di firmare dei referti falsi a loro favore. I
due medici si rifiutano e vengono pestati per bene. Poi vengono minacciati di
non denunciare la cosa, viceversa saranno accusati di appartenere ad una
organizzazione terroristica. Ciò significa, sparizione, arresto, torture e
possibilmente morte. I due medici, spaventati, non denunciano.
L'Unione
dei sindacati delle professioni mediche, che comprende anche dentisti e farmacisti,
prendono in mano il caso e decidono loro stessi di denunciare. L'ospedale viene
chiuso, in linea con una delibera del sindacato che sottolinea l'impossibilità
di svolgere le mansioni ospedaliere finché non venga garantita l'incolumità del
personale e dei pazienti, sicurezza che dovrebbe essere "difesa"
dagli aguzzini. Per calmare le acque Il ministro dell'Interno sospende gli 8
poliziotti e li mette sotto indagine, promettendo provvedimenti disciplinari. I
medici non ci stanno e scendono in piazza chiedendo che i poliziotti vengano
processati e subiscano una condanna esemplare, ma chiedono anche le dimissioni
del ministro.
Adesso,
in linea teorica, tutti i medici che hanno partecipato alla manifestazione
potrebbero essere perseguiti in ottemperanza alla legge anti-protesta. Cosa
certa è che uno squarcio si sta aprendo nella società civile egiziana stanca
che dei torturatori guidino le sorti del loro paese...
Una bandiera bianca per
difendere la cantina della barbarie
E'
ancora in corso la tragica vicenda di una delle tre cantine dove sono rimasti
intrappolati uomini, donne e bambini nella città di Cizre, bombardate dai carri
armati turchi.
Bologna,
11 febbraio 2016
- Nella città sotto assedio, dove solo a camminare per le strade si rischia la
vita, poiché i cecchini dell'esercito sparano sulla folla, 10 donne del
quartiere Sur, con la forza e la speranza riposta in una bandiera bianca, hanno
sfidato il fuco dell'esercito turco frapponendosi tra l'edificio e i carri
armati.
Le notizie riguardanti questo
scantinato, ribattezzato della ferocia, sono trapelate grazie al fatto che lì
sotto, seppellita, insieme a quindici superstiti, gli altri venti sono stati
già uccisi, c'è Derya Koç, ex co-presidente per il Partito Democratico dei
Popoli. La donna con un cellulare ha comunicato con il padre e con l'agenzia di
stampa delle donne kurde Jinha.
La
tragica radiocronaca dell'assalto è stata riportata dai soli organi
d'informazione kurdi: ”Non possiamo respirare. Molte persone hanno sofferto
ferite alle braccia e alle gambe. Uno dei feriti ha perso un occhio. Quelli con
ferite gravi moriranno se non riceveranno cure mediche urgenti“.
L'edificio
è stato "collassato" dai colpi di carro armato sparati ai piani
superiori, dopo di che i militari turchi sono entrati dentro bruciando con
taniche di petrolio quello che restava, compresi venti persone, arse vive.
Un'altra quindicina è riuscita a scapare a questa fine atroce rifugiandosi
appunto nella cantina.
Attorno all'edificio, nei
pressi dell’Hotel Karem, si è continuato a sparare, mentre dentro l'edificio
sono stati sparati gas lacrimogeni, che appunto hanno causato difficoltà di
respirazione alle persone seppellite nello scantinato.
In questo contesto, che i media
internazionali ignorano, tuonano come un ulteriore affronto alle atrocità di
cui il governo autoritario turco si sta facendo artefice, le parole di minaccia
del presidente Erdogan agli Stati Uniti, minacciandolo di scegliere se stare
con la Turchia o con i kurdi, visto che il governo statunitense ha dichiarato
di non considerare terrorista il partito dell'Unione democratica del Kurdistan.
Fonti: Jinha, ANF
Le diverse facce
dell’orrore mediorientale
I due fatti che già dalla settimana scorsa sono
stati portati agli onori della cronaca riguardano le azioni in spregio ai
diritti umani compiuti da due paesi autoritari con cui l'Europa e l'Italia, in
particolare, hanno stretto accordi di solida amicizia: l'Egitto e la Turchia.
Bologna,
9 febbraio 2016
- Sul terribile assassinio di Giulio Regeni, non staremo a descriverne ancora
le atrocità con cui è stato torturato per diversi giorni e poi ucciso
roteandogli la testa oltre il punto di resistenza. Le questioni sollevate da
questo atroce delitto sono tre: il depistaggio del sistema di potere egiziano,
le prassi d'uso comune utilizzate dallo stato di polizia del Presidente
golpista Al-Sisi, che sono quelle con cui è stato trucidato il povero Giulio, e
l'esaltazione del Premier Renzi nei confronti del dittatore egiziano, con cui
ha stretto accordi commerciali e si accinge al suo fianco ad andare in guerra
in Libia.
“Credo che l'obiettivo è quello
di colpire chiunque in grado di mobilitare le proteste. L'obiettivo è quello di
mettere a tacere tutti coloro che lavorano dal basso. Questo comprende sia gli
islamisti e la sinistra. Per esempio, Mahienour El-Massry è un attivista che si
trova al di fuori del loro controllo, per il suo lavoro con i migranti,
studenti e lavoratori. Mio fratello Alaa era sempre nel mirino per la sua
critica radicale del sistema. Ma ad essere colpiti sono anche i giovani nelle
ONG lavorano per la difesa dei diritti dei bambini. Qualsiasi piattaforma che
permette alle persone di organizzare deve essere fermata”.
Con queste parole, rilasciate
al quotidiano il manifesto, Mona Seif, l'attivista egiziana protagonista,
insieme alla sua famiglia della rivoluzione del 2011, descrive così il clima di
questo momento in Egitto, dove il sistema poliziesco si è praticamente
impossessato della dimensione quotidiana nelle città, ed il sospetto, soprattutto
nei confronti degli stranieri ne diventa lo strumento di azione per torture e
sparizioni, come nell'Argentina di Videla o nel Cile di Pinochet. Se è dunque
palese che Giulio sia stato ammazzato dal regime, c'è anche da dire che i
depistaggi, anche grossolani, da parte dello stesso, non dovrebbero essere
tollerati: prima un incidente autostradale, poi un semplice fatto di
criminalità, adesso un delitto a sfondo omosessuale.
In tal senso il governo
italiano, che ha esaltato il dittatore e torturatore Al-Sisi come una sorta di
eroe mediorientale, negli incontri internazionali, dopo aver stretto accordi
commerciali, proprio il giorno del ritrovamento del cadavere di Giulio, adesso
si accinge ad andare al suo fianco nella guerra prossima ventura in Libia.
Sembra evidente che il massacro
di Giulio resterà impunito, poiché è impensabile che i rapporti idilliaci tra i
due paesi possano essere messi in discussione dal barbaro assassinio di un
giovane italiano, che lottava per i diritti negati in quel pezzo di Medio
Oriente...
Se la storia di Giulio è stata
raccontata e continua ad esserlo, quello dei massacri del governo Turco ai
danni di Cizre, città kurda del sud-est, ha assolutamente disinteressato i
mezzi d'informazione mainstream. Da quasi due mesi in stato d'assedio, la
cittadina di 130mila abitanti, sta vivendo un dramma sconcertante, innescato da
un paese NATO, la Turchia appunto.
Tanto per sintetizzare la
situazione è questa: taglio dell'energia elettrica e delle forniture idriche,
fuoco ininterrotto dell'esercito turco, sia con bombardamenti che attraverso i
cecchini, i quali impediscono alla gente di uscire di casa: vengono colpiti
indistintamente. La città è praticamente distrutta e l'ospedale è stato
occupato militarmente: viene impedito alle ambulanze di soccorrere i feriti.
In tal senso la notizia di ieri
riguarda la vicenda dei “prigionieri del seminterrato”. Da giorni, dopo che a
causa dei bombardamenti un edificio era crollato, 62 dei suoi residenti, erano
riusciti a mettersi in salvo nel seminterrato: c'erano uomini, donne e bambini.
Per dieci giorni l'esercito ha impedito che i soccorsi accedessero per salvare
i civili sotterrati. Ieri l'epilogo. Il seminterrato ha ufficialmente subito un
attacco da parte dei carri armati turchi: tutti morti... Le foto che girano sul
web stanno insinuando un altro dubbio atroce, perché i morti sembrano
pietrificati e ciò lascerebbe intendere l'uso di armi chimiche...
Uomini, donne e bambini
come bestie sui confini tra Medio Oriente e Europa
Migliaia di persone accalcate ai due confini e
impossibilitati ad accedere nei paesi dove ricevere un'accoglienza umana:
fotografie di questo momento storico
Bologna,
6 febbraio 2016
- Sembrano 30.000, ma i numeri di questa folle vicenda potrebbero essere molto superiori.
30.000 uomini, donne, bambini, anziani che scappano da Aleppo, la città siriana
dove la coalizione filo-governativa sta facendo man bassa di civili inermi,
mentre combatte per riprendere il potere. 30.000 persone accalcate come bestie
al confine con la Turchia, che gli impedisce di entrare nel paese, dopo aver
sottoscritto l'accordo con l'Unione Europea, per accogliere i rifugiati nel
proprio territorio e non farli passare negli stati europei: l'Italia ha già
dichiarato che la sua quota di duecento milioni di euro è in pagamento.
Due sono i valichi alla
frontiera: 20.000 persone a Bab el Salam e 10.000 a Azas. Questa gente fugge
dalle bombe a grappolo lanciate dall'aviazione russa e dall'azione militare di
terra condotta dagli Hezbollah libanesi e dalle milizie iraniane, cioè la
coalizione sunnita che difende il potere di Assad. L'azione militare, che non
risparmia nessuno, si scaglia contro tutti, cioè non solo contro l'Isis, che è
il nemico della Coalizione Globale o Small Group, la quale si sta organizzando
per avviare la guerra in Libia, ma anche contro i gruppi di liberazione
democratica della Siria, che sono stati chiamati alla conferenza di Ginevra,
sotto l'egida dell'Onu e del suo inviato de Mistura, per avviare i negoziati di
pace, falliti miseramente prima di cominciare.
Quella
di Aleppo, per Assad sembra essere "la madre di tutte le battaglie"
per riprendere il potere e schiacciare principalmente l'opposizione interna,
prima che i jihadisti. Riprendere Aleppo secondo i piani del regime dittatoriale
significherebbe, annientare l'opposizione democretica interna, che vuole la sua
defenestrazione, delegittimandola definitivamente.
La Turchia, dal canto suo,
chiude le frontiere ai rifugiati che scappano aspettando che l'Arabia Saudita,
sua alleata sunnita, entri in campo, come ha dichiarato di voler fare, per
combattere la sua personale guerra contro il popolo kurdo del Rojava. Si tratta
della lingua di terra autonoma a nord della Siria, le cui sorti sono
direttamente proporzionali alle istanze di libertà, represse nel sangue, dal
governo nel sud-est turco.
Nel frattempo, una situazione
simile si sta creando al confine tra la Grecia e la Macedonia, nel comune greco
di Polykastro, dove oltre 4000 persone sono ferme in attesa di poter fare la richiesta
di asilo in Austria e Germania. Sembra che i motivi siano legati agli scioperi
dei contadini nella repubblica ellenica e dei tassisti in Macedonia, che hanno
bloccato la strada in segno di protesta contro il governo. Quattromila persone
al freddo, senza cibo, senza luoghi riparati dove poter dormire: questa è
l'Europa di oggi!
Accusata dall’Onu per le stragi dei civili e pagata dall’Europa
per fermare i rifugiati
Mentre le Nazioni Unite denunciano la Turchia per
i crimini contro l'umanità commessi ai danni della popolazione curda, sono già
in pagamento le quote dei singoli paesi europei per fermare i rifugiati siriani
nel nord del paese
Bologna,
2 febbraio 2016
- “Sollecito le autorità turche a rispettare i diritti fondamentali dei civili
durante le sue operazioni di sicurezza e di indagare tempestivamente il
presunto tentativo di omicidio di un gruppo di persone inermi nella città del
sud-est di Cizre”.
L'Alto Commissario delle
Nazioni Unite Zeid Ra’ad al-Hussein è uscito allo scoperto dopo mesi di nefaste
azioni di morte da parte del governo turco nei confronti dei civili che abitano
le città curde sulla striscia di sud-est a confine con la Siria, dove è stata
dichiarato un autogoverno, per garantire l'identità di un popolo persegutato in
casa propria da un secolo. Così elettricità, acqua, accesso alle cure mediche
sono state tagliate, mentre i carri armati distruggono abitazioni e i cecchini
colpiscono gli abitanti che camminano per strada.
L'evento scatenante, questa
volta, vede come teatro la città di Cizre, 120 mila abitanti, che da un mese e
mezzo ormai è sotto assedio, con l'imposizione di un coprifuoco che non
risparmia donne e bambini. In un video, mostrato dall'Alto Commissario, girato
il 20 gennaio, si vedono chiaramente delle immagini che lasciano basiti. Una
vera e propria esecuzione di massa: un gruppo di civili disarmati, in mezzo a
cui si scorge una bandiera bianca su un carretto che trasporta corpi senza
vita. Un mezzo militare turco controlla distanza i movimenti di questo corteo
funebre, mentre ad un certo punto una pioggia di proiettili li investe,
uccidendo una decina di persone. Persino il cameramen è rimasto ferito e in
questo momento è in un ospedale, per cui Zeid Ra’ad al-Hussein ha chiesto che
non venga arrestato quando sarà dimesso.
"A
questo punto noi daremo il nostro contributo alla Turchia per salvare esseri
umani. E faremo ogni sforzo per salvare vite umane nel Mediterraneo: abbiamo
salvato, e continueremo a farlo, migliaia di vite mentre l'Europa si girava
dall'altra parte. Prima del patto di stabilità c'è un patto di umanità".
Queste invece sono le parole di
Matteo Renzi, Presidente del Consiglio italiano, mentre annuncia che è già in
pagamento la fetta di danaro, circa duecento milioni, dei tre miliardi che l'Europa
ha destinato alla Turchia per fermare i rifugiati che provengono dalla Siria e
dall'Iraq, prevalentemente, in una zona cuscinetto al nord della Turchia...
E' difficile commentare
l'ipocrisia ed il cinismo di questa classe politica europea, che fomenta le
guerre in Medio Oriente, attraverso patti più o meno scellerati con i paesi
sunniti, dove armi e petrolio sono i prodotti di scambio, e dice di voler
combattere gli sciiti tagliagole dell'Isis con le bombe a grappolo che
colpiscono i civili. Nella realtà però gli unici che combattono sul campo i
tagliagole sono i gruppi militari di donne e di uomini curdi, che in linea di
continuità con i loro obiettivi di indipendenza hanno costituito nel nord della
Siria il Rojava, e contribuito a ridurre su tutta l'area l'impatto
dell'avanzats dell'Isis, che si sta concentrando sulla Libia.
In questo contesto sono stati
avviati i negoziati di pace sulla Siria a Ginevra, condotti dall'inviato
speciale dell'Onu Staffan De Mistura. Ebbene al di là dei veti incrociati su
chi si deve sedere a quel tavolo legittimato per il suo ruolo di opposizione o
al regime o all'Isis, la resistenza curda, l'unica che può vantare
legittimamente di sedersi a quel tavolo, sia per le caratteristiche di
democrazia a cui il suo popolo inneggia, sia per il ruolo strategico contro l'Isis,
non è stata ammessa, perché la Turchia, che massacra i civili in casa sua, si è
opposta, paragonando la lotta di indipendenza curda al terrorismo...
La strategia jihadista
del terrore: colpire l’occidente
Sono di 18 nazionalità diverse le persone uccise
durante l'assalto jihadista di ieri nella capitale del Burkina Faso
Ouagadaougou. All'interno di un perimetro che comprende due alberghi e un bar,
l'Holtel Splendor, il Caffe Cappuccino, di proprietà di un italiano e l'Hotel
Ybi, sulla centralissima Avenue Nkrumah, vi è stato un assalto di un commando
composto da qunidicina di persone, che si è fatto precedere da due autobombe,
esplose tra lo Splendid e il bar ristorante.
Bologna,
16 gennaio - Il
bilancio è di 23 morti, di cui una decina presso il locale italiano, una
trentina di feriti e 126 ostaggi liberati nella notte, tra cui c'era un
ministro burkinabè, mentre tre degli uomini del commando, un arabo e due
africani, sono stati uccisi dalle forze dell'ordine.
La zona era frequentata da
cittadini occidentali, uomini d'affari, personale ONU. Lì fa base anche un
distaccamento dell'esercito francese, che partecipa all’operazione Barkhane
contro i militanti islamisti del Sahel. Proprio ieri sera era in corso, presso
l'Hotel Splendid, una cena promossa dall’Agenzia per la sicurezza della
navigazione aerea in Africa e Madagascar, a cui era appunto presente il
ministro dei Lavori Pubblici, Clement Sawadogo, portato in salvo, verso le tre
del mattino, insieme agli altri ostaggi. Una volta entrati nell'albergo, e
preso possesso dell'Hotel da parte del commando, è stato subito chiaro che
l'attacco non si sarebbe risolto in tempi brevi. Infatti il blitz durato alcune
ore ed è stato coordinato dalle forze speciali francesi.
L'azione è stata rivendicata
dal gruppo Aqmi, organismo interno al Al Qaeda, specializzato in assalti negli
hotel, lo stesso che fece un'azione simile qualche mese addietro in Mali. Nella
rivendicazione si fa esplicito riferimento alla volontà di colpire la Francia e
più in generale le nazioni occidentali. In effetti c'è da dire che i paesi
africani sub sahariani rappresentano l'area d'influenza di Al Qaeda, che
nell'area mediorientale si pone come competitor dello Stato Islamico, e in
alcuni casi, come in Yemen, si combattono vicendevolmente...
La novità è che all'area
d'influenza jihadista si aggiunge il Burkina Faso, intimo alleato da sempre
della Francia, anzi ai tempi della trentennale dittatura di Blaise Compaoré,
era uno dei più importanti paesi gravitanti nella cosiddetta Franceafrique, la
strategia di gestione economica dei paesi africani ex colonie. Dunque è
evidente la strategia jihadista tra l'Isis e Al Qaeda è la stessa: colpire i
paesi occidentali fuori dall'occidente, sistematizzando le aree d'influenza,
come quella turca qualche giorno fa, per fare campagne di terrore finalizzate
soprattutto al proselitismo, aumentando il più possibile gli ambiti
territoriali.
L’Isis attacca Istanbul,
dopo anni di partnership con la Turchia
Erano circa le 10 di questa mattina quando un
affiliato siriano dell'Isis si è fatto esplodere nei pressi dell'obelisco di
Teodosio, nella piazza centrale di Sulthanamet, il quartiere che rappresenta il
cuore di Istanbul. E' lì infatti che sono posizionate le principali moschee
della città, da Santa Sofia alla moschea blu.
Bologna, 12 gennaio 2016 - E'
l'area più trafficata di Istanbul, dal punto di vista della concentrazione
turistica. Una miriade di pulman organizzati dai tour operator contornano il
perimetro dell'enorme piazza rettangolare da cui si scorgono le due principali
moschee. Il passeggio in quell'area è in qualche modo obbligatorio per chi
voglia visitare il cuore e la tradizione della meravigliosa megalopoli turca.
Le informazioni che si
susseguono da stamattina, tra dispacci del governo turco ed emittenti
televisive, danno allo stato attuale 10 morti e 15 feriti, quasi tutti turisti.
Infatti l'uomo si è fatto esplodere proprio in mezzo ad una comitiva tedesca,
lì dove si sa che è possibile colpire più turisti che cittadini turchi, gli
unici dei quali sono venditori di oggetti tipici ai bordi della piazza. I morti
infatti sono in maggioranza tedeschi, come anche qualche ferito, oltre ad un
norvegese ed un peruviano, e sembra due cittadini turchi. Due dei feriti sono
molto gravi.
A quanto dicono le fonti in
loco, la situazione nel cuore della città sembra essere stata estremamente
caotica. L'area è stata chiusa al flusso turistico, dai cordoni della polizia,
come anche l'accesso delle auto alle strade attigue, anche se quasi subito il
traffico ha ripreso normalmente. La sensazione ricevuta dall'esplosione,
dichiara un corrispondente dell'Ansa, assomigliava ad un terremoto.
E' chiaro l'intento
dell'attentato, cioè colpire i cittadini stranieri presenti ad Istanbul, quasi
come se il messaggio dell'Isis fosse diretto più al mondo che non alla Turchia,
la quale per la prima volta si ritrova teatro di un attacco terroristico. Dopo
anni di "non belligeranza" tra il sedicente Stato islamico e la
Turchia, in ragione di interessi reciproci da gestire ai confini con la Siria,
dai flussi dei Foreign fighter, al traffico di armi, alla vendita del petrolio
di contrabbando, adesso, con questo attentato, gli equilibri nella zona
potrebbero essere cambiati.
Gli intrecci italiani nella guerra dello Yemen
Sono quattro i momenti dell'intreccio che
coinvolge l'Italia nella guerra mediorientale dello Yemen, che sta determinando
una strage di civili, tra le bombe arabe, a difesa del governo esiliato nel
sud, e lo sbarramento delle vie di accesso generato dai ribelli sciiti Houthi,
sostenuti dall'Iran, che, essendo attaccati dalla coalizione filo-araba,
impediscono gli aiuti umanitari, intrappolando 200 mila persone.
Bologna, 26
novembre 2015
- Ci sono
quattro momenti, in questa storia, che raccontano l'intreccio tra una delle
guerre mediorientali attualmente in corso, quella in Yemen, ed il modo in cui
l'Europa entra nelle dinamiche del conflitto, con uno dei suoi paesi, in questo
caso l'Italia, che partecipa fornendo le bombe ad uno dei due contendenti.
Il 16 novembre è il primo,
quando nella base aerea di Al-Anad iniziano le primissime manovre di avvio alla
controffensiva militare delle forze legate al governo esiliato nel sud, per la
riconquista di Taiz. La città da riprendere è una zona strategica per le sorti
del conflitto. Da lì in poi i ribelli Houthi hanno il controllo del paese, che
si allunga fino alla capitale San'a, a 200 chilometri.
Ma quella base dista 35
chilometri a sud dalla linea del fronte, ed è un importante punto di appoggio
per l'offensiva. E' sempre quello il luogo in cui si sviluppano gli intrecci
internazionali. Lì confluiscono infatti i rinforzi della cosiddetta coalizione
araba. Il generale Ahmed al-Yafie, comandante della quarta regione militare,
dichiarava ad AFP, la scorsa settimana: "L'operazione militare per
liberare Taiz è iniziata dopo l'arrivo dei rinforzi militari della coalizione
araba, le forze della resistenza e l'esercito nazionale nel sud e ovest della
provincia di Taiz". In questa coalizione a sfondo sunnita sembra che partecipino
anche forze sudanesi.
Il secondo momento esplicativo
per le vicende che stiamo raccontando è il 18 novembre, quando il Presidente
esiliato Hadi, arriva in quella base per sovraintendere le manovre offensive e
gestire i rapporti con gli alleati, anche perché in quello stesso giorno si
attende che l'Arabia Saudita riceva un nuovo rifornimento di bombe destinato
alla sua base militare di Taif. In quel giorno un deputato italiano comunica al
Parlamento che l'azienda produttrice di armi Rwm Italia è pronta per spedire un
carico di ordigni dall’aeroporto di Elmas in Sardegna. La richiesta del
parlamentare di fermare quel carico ovviamente non viene assecondata. E qui
entriamo nel terzo momento di questa storia, cioè alle prime luci dell'alba del
19 novembre, quando quel carico di armi viene inviato, proprio per combattere
alla presa di Taiz.
Poi c'è l'ultimo momento, il
più drammatico, la denuncia di ieri del vice segretario delle Nazioni Unite per
le questioni umanitarie, Stephen O’Brien, che fa un resoconto impietoso della
situazione bellica: 200 mila civili intrappolati tra le bombe della coalizione
e le barricate degli Houthi; interi quartieri, strutture sanitarie, abitazioni
colpite dalle bombe; manca acqua potabile, cibo, cure mediche; la gente inerme
è in balia del conflitto; le vie d'accesso per gli aiuti umanitari sono
sbarrate.
Per finire qualche numero:
1.300 civili uccisi nella fase della controffensiva, 5.600 persone uccise in
sette mesi di guerra, di cui circa 400 bambini, 10.000 feriti tra la sola
popolazione civile, intorno al milione il numero di sfollati... Mentre in
Europa si continua a dire che è iniziata la terza guerra mondiale contro i
musulmani...
La vera guerra di resistenza democratica all’Isis combattuta dal
popolo kurdo
Mentre in Europa si mistifica lo stragismo
jihadista, in quanto guerra dei musulmani contro l'occidente, l'Isis viene
combattuta sul campo proprio da un popolo a maggioranza sunnita, mentre la
Turchia, alleato dell'occidente, continua a favorire gli stragisti dello Stato
islamico sui varchi di confine con la Siria, guerreggiando in casa contro
l'unica vera resistenza ai massacratori di Parigi. All'apertura dei varchi si è
dichiaratamente opposto Putin, non per appoggiare la resistenza curda, ma per
intrappolare le milizie jihadiste, considerato che le sue bombe colpiscono
indifferentemente chi si schiera contro Assad, quindi anche i curdi. Per tutta
risposta proprio oggi Erdogan, il sultano, ha fatto fuori un aereo da
combattimento russo...
Bologna,
24 novembre 2015
- L'area in cui si continua a combattere è quella di Kobane, nel cosiddetto
Kurdistan occidentale o siriano, ribattezzato Rojava. I dispacci di guerra
dell'Ufficio stampa dell'YPG parlano di quattro assalti in rispettivi villaggi,
che fanno riferimento alla cittadina di Ayn Isa, tutto nell'arco di una
trentina di ore. Il primo villaggio sotto tiro, con armi pesanti, dei jihadisti
è stato Ayn Mixêra, durato un paio d'ore, tra le 14 e le 16 del 21 novembre,
per poi ripetersi intorno alle 10 del giorno seguente.
Nel frattempo un altro gruppo
dello Stato islamico prendeva di mira il villaggio di Al-Hayshê a est della
città di Ayn Isa. Qui l'attacco è durato a lungo, dalle 11 a mezzanotte e
mezza. Nella prima mattina del 22, tra le 8 e le 10, veniva invece colpito il
villaggio di Shikeyf, della città Sirin, mentre nel tardo pomeriggio, a sud
ovest di Kobane, il villaggio di Qereqozax, veniva assaltato con armi pesanti e
fuoco di artiglieria.
La risposta a questi attacchi
concentrici, da parte della resistenza curda, si è fatta attendere alcune ore.
Il comunicato di guerra sottolinea che due delle organizzazioni della
resistenza, YPG e YPJ (Unità di difesa delle donne) si sono coordinate conducendo
un'offensiva da ovest della città di Ayn Isa, iniziata alle 16 del 22 novembre.
Ayn Mixêra è stata raggiunte dalle forze curde intorno alle 20,30, e a sera
inoltrata, la controffensiva si sviluppava tra il monte Kezwan e la città al
centro degli attacchi. Il resoconto dell'YPG parla di 20 jihadisti uccisi, due
veicoli militari distrutti. A ciò si aggiunga una tonnellata di esplosivo
sequestrata, come anche un Kalashnikov e vari binocoli termici.
L'agenzia ANF News, in un
notiziario di ieri ha comunicato, infine, che i combattenti delle Forze
democratiche Siriane (SDF) hanno liberato, nella parte ovest del Rojava, il
villaggio di Melebiye, 10 km a sud della città di Hesekê, un'importante arteria
strategica, dove vi è una fabbrica di cotone, la cui immagine simboleggia il
risultato militare.
La guerra vera dunque non si
combatte in Europa ma in Medio Oriente, e sono proprio i musulmani a difendere
quei valori di libertà e democrazia incarnati nelle istanze delle donne e degli
uomini curdi. Ma le stesse istanze sono violentemente represse sulla striscia
di terra che confina con il Rojava, nella parte turca. Lì attualmente vige il
coprifuoco voluto dal sultano Erdogan, precisamente nella città di Nusaybin.
Polizia e soldati, ormai da giorni, uccidono civili, tra cui una donna incinta,
e un giovane diciottenne: in tutto 7 morti e 15 feriti. I rappresentanti del
partito HDP (Partito Democratico Popolare) Gülser Yıldırım e Ali Atalan sono
entrati in sciopero della fame per indurre le autorità turche a rimuovere il
coprifuoco e interrompere gli attacchi contro la popolazione civile.
Inoltre le truppe turche hanno
attaccato e demolito un cimitero dove sono seppelliti uomini della resistenza
curda, in un villaggio nel distretto di Lice, in segno di disprezzo nei
confronti della causa curda. Nella sera di domenica, Selahattin Demirtaş
co-presidente del HDP, mentre viaggiava nella sua auto ufficiale, è stato
vittima di un attentato intimidatorio. Qualcuno ha infatti sparato sul lunotto
posteriore, considerato che la macchina è antiproiettile.
Ferhad Derik, è invece un
membro dell'esecutivo del “Movimento per una Società Democratica” (TEV-DEM) del
Rojava. Sempre domenica ha rilasciato una intervista all'agenzia di stampa
ANHA, nella quale dichiarava di essere in possesso dei documenti che comprovano
le responsabilità del governo di Ankara, nell'aver appoggiato l'Isis contro la
resistenza curda. Questa accusa era maturata quest'estate, da quando cioè
Erdogan impediva alle forze curde di andare in soccorso delle donne di Kobane
che combattevano contro lo Stato islamico.
Derik ha detto che questi
documenti rivelano come la Turchia abbia aperto tutti i valichi di frontiera ai
membri dello Stato islamico, fornendo armi, munizioni e supporto logistico. Una
verità che tutto il mondo occidentale conosce, ma su cui a nessuno è convenuto
soffermarsi, tranne che alla Russia, poiché, per un suo calcolo, lavora
affinché il regime di Assad rimanga in vita...
La storia dei valichi aperti
spiega il perché degli atteggiamenti ambigui sulla gestione delle frontiere con
la Siria, a partire dai foreign fighters per finire al caso misterioso della
giornalista, che indagava sull'Isis, trovata morta all'aereoporto di Istanbul,
che fino alla fine le autorità turche hanno cercato di insabbiare miseramente.
In quei tre
giorni di metà novembre
Le guerre mediorientali venivano traslate in Europa attraverso le autostrade della jihad e la morte arrivava dopo una manipolazione della mistica, con una nuova ingegneria delle anime. Così i governi, che prima non si accordavano, adesso bombardano insieme.
Bologna,
18 novembre 2015 - In quei tre giorni, tra un mercoledì e un
venerdì di metà novembre, il mondo si è capovolto. In due paesi mediorientali e
in uno europeo, Iraq, Libano e Francia, eserciti si scontravano, bombe
esplodevano tra un centro commerciale ed una moschea. Altre fuori da uno
stadio, mentre uomini pazzi sparavano sulla folla, ad un concerto di musica
rock e in qualche bistrot sovraffollato. Fosse comuni si scoprivano. C'erano
tantissime donne, massacrate un anno prima. Altre, ancora schiave, in quei
giorni, venivano liberate. Il male ed il bene si proiettavano l'uno sull'altro,
con i sorrisi dei soldati vincitori, con il pianto, il dolore e la paura di chi
aveva dovuto camminare sopra dei cadaveri per salvarsi la vita...
Sul campo di battaglia
mediorientale tra Siria, Iraq e Yemen, si trovano a combattere in questo
momento forze militari, rappresentative dei popoli o stati che sono avversari o
alleati o alleati di avversari a seconda della zona geografica o delle
condizioni geopolitiche. Il caso più eclatante, in tal senso, riguarda il
popolo curdo, il quale non avendo uno stato proprio, ed essendo
"spalmato" su quattro nazioni differenti, organizzato in varie sigle
militari, conduce diverse guerre di resistenza, per rivendicare libertà e
autonomia. Così, in Turchia, dal dittatore bianco o sultano Erdogan, il popolo
curdo è combattuto e represso in quanto terrorista. La Turchia è alleata sia
degli Stati Uniti che dell'Unione Europea, con il quale sta contrattando la sua
entrata in cambio della possibilità di tenersi tutti i rifugiati che fuggono
dalle guerre mediorientali, per non farli entrare nel continente.
Sono
nitide le immagini di quelle giovani donne che combattono per la libertà. Con
in braccio una mitragliatrice marciano insieme fiere di poter lottare per un
paese che non hanno. E' un secolo ormai che il loro popolo deve difendersi e
attaccare per potersi dire fiero di essere popolo. La loro città si chiama
Kobane, lì vivono da sempre, però il califfato del male li ha invasi e loro si
sono difese e poi hanno attaccato, finché sono riuscite a scacciare l'invasore.
Poi tutti i gruppi di resistenza hanno raggiunto un'altra città: Sinjar. Li, le
loro sorelle e i loro fratelli sono stati trucidati dal califfato e rese
schiave. E così hanno combattuto e l'hanno liberata. Come quella strada del
resto, la 47, che collega due paesi, da cui il califfato faceva passare i
rifornimenti per fare le guerra...
Le dinamiche
del dominio
Ma da raccontare c'è anche la
storia del conflitto mediorientale tra stati sunniti e sciiti, in funzione
della supremazia sul controllo delle risorse petrolifere, in quei pezzi di
continenti compresi tra Medio Oriente, corno d'Africa e nord Africa. Sunniti
sono quei paesi legati all'occidente: Turchia e paesi arabi del Golfo. Gli
sciiti identificano la leadership nell'Iran, insieme alla Siria di Assad e a
quel pezzo di Libano espresso da Hezbollah. Nelle ultime ore l'Iraq ha
annunciato di volersi schierare militarmente accanto al blocco sciita,
sponsorizzato dalla Russia. Si, perché la sintesi delle guerre mediorientali
sono legate al vertice di Vienna, dove si è iniziato a contrattare sul futuro
siriano... Da un lato c'è il blocco sciita che vorrebbe Assad al potere, anche
dopo la risoluzione della guerra, ma gli stati occidentali e quelli sunniti lo
vorrebbero defenestrare. Un'altra notizia delle ultime ore parla della Russia
tendente a rivedere le sue posizioni sul dittatore siriano.
L'Isis, si è insinuata nel
conflitto tra sunniti e sciiti all'indomani delle primavere arabe, quando i
moti popolari di protesta si trasformarono in guerra civile. Così, agli
oppositori al regime dittatoriale di Assad, composto prevalentemente da
giovani, e dal popolo curdo, si unirono tribù jihadiste di varia natura, che
combattevano una loro guerra personale, tra cui appunto lo Stato islamico,
intenzionato a trasformare la Siria in uno dei due paesi di un nuovo califfato.
Prima i
governi non riuscivano ad accordarsi. A chi bisognava fare la guerra? Sul campo
di battaglia c'e il califfato del male ma anche donne e uomini che combattono
per la libertà, massacrati da un dittatore siriano spietato. Proprio lui, che
fine avrebbe dovuto fare dopo? A differenza degli altri, c'era il potente stato
asiatico che voleva ancora il dittatore al potere. Poi, le bombe sono
cominciate a cadere in quel pezzo di Medio Oriente, dopo quei tre giorni di
liberazione, ma anche di morte, dolore e paura. In quella strada importante per
i collegamenti adesso devono essere colpite le altre città invase dal
califfato, perché i governi hanno trovato il modo di allearsi. E' una specie di
legge del contrappasso: se in una parte del mondo le città hanno paura, in
un'altra devono essere bombardate. La prima da far esplodere si chiama Rakka.
Tutti gli stati devono aiutarsi quando uno di essi viene attaccato, lo dicono i
trattati. Ma anche la storia lo insegna, come quando venne combattuto e
sconfitto Hitler. Bombardare allora è giusto! Ma bombardare significa distruggere
una città, significa ammazzare la popolazione civile, perché 90 bombe, lanciate
dai caccitorpedinieri in mare e dagli aerei in cielo, non possono non
travolgere l'intera città...
Era proprio all'indomani delle
primavere arabe che l'Isis si rafforzava, riuscendo a scalzare Al-Qaeda,
ambedue sunniti, dalla leadership del jihadismo stragista. E questa supremazia
l'ha guadagnata proprio per il modo in cui se ne è differenziata. Innanzitutto
per le forme di finanziamento. Se prima Al-Qaeda basava la sua capacità
finanziaria sulle donazioni private di questo o quel magnate, tra cui la stessa
famiglia di Bin Laden, per l'Isis le donazioni private provenienti da Qatar,
Emirati e Arabia Saudita costituiscono l'elemento residuale. La sua potenza
finanziaria l'ha costituita nel tempo, impossessandosi dei pozzi petroliferi
attraverso le sue azioni militari. Il greggio fino ad adesso è stato venduto in
un mercato nero internazionale, a cui hanno attinto vari stati: dall'Iraq alla
stessa Siria, dalla Giordania alla Turchia. E questa rappresenta la prima
grande autostrada jihadista, in seno al Medi Oriente.
L'altro elemento di
differenziazione con Al-Qaeda è stata la nuova strategia d'azione che l'Isis ha
compiuto. Nel senso che fino al regno di Bin Laden lo stragismo era l'unico
strumento di azione, rivelatosi fine a se stesso, per quanto diabolico,
rispetto al conseguimento di un chiaro obiettivo. L'idea di costituire uno
stato autonomo come il califfato richiedeva un dimensione organizzativa
diversa: un esercito che combattesse sul campo. Migliaia di uomini disposti a
tutto. Solo così si poteva sfidare il mondo musulmano, anche quello sunnita,
per predominare in Medio Oriente.
La nuova
ingegneria delle anime
Ogni risultato strategico, dal
punto di vista militare, necessita di una straordinaria capacità nella
pianificazione delle campagne di comunicazione, tese a fare proseliti e
rinsaldare le fila. Internet in tal senso è stata una chiave di volta,
attraverso cui menti preparate, con alte competenze dal punto di vista della
psicologia delle masse, hanno saputo costruire un messaggio più che
convincente, straordinariamente identitario, attraverso la manipolazione di una
mistica legata al credo islamico. Ne più ne meno quello che fece Goebbels con
il nazionalsocialismo, attraverso la costruzione dell'ingegnere delle anime,
come Ciacotin, studioso del tempo, definì Hitler. A quell'epoca esisteva la
radio, oggi c'è il web.
Abdelhamid
li conosceva fin dall'infanzia i fratelli Salah e Ibrahim. Erano cresciuti a
Bruxelles, nel quartiere di Molenbeek. Omar, il padre di Abaaoud, era emigrato
dal Marocco e una volta giunto in Belgio aveva cominciato a lavorare in
miniera. Poi, lentamente riuscì a fare una piccola scalata sociale. Si aprì un
negozio di abbigliamento, proprio lungo il boulevard dove la gente passeggia
per fare acquisti. E poi ancora un altro negozio, per dare un futuro a suo
figlio Abdelhamid, nato nella città europea che lo aveva ospitato. Perché
voleva a tutti i costi che facesse il commerciante, il ragazzo era belga del
resto, e aveva tutte le carte in regola per fare fortuna. Ma questo sogno durò
poco, perché un giorno il vecchio emigrato marocchino scoprì che suo figlio era
un assassino, quando il ragazzo si rese latitante all'età di 27 anni. Cambiò
persino nome, si fece chiamare Abou Omar Souss e quando scomparve dal quartiere
si prese anche il fratellino Younes di 13 anni. Diventò un capo militare in
Medio Oriente, gestendo soldi e uomini. Si mise a fare guerre e organizzare
attentati, fino a diventare il criminale più ricercato del mondo. Si prese
persino gioco dei governi, tipo primula rossa, passando liberamente per le
frontiere europee. E la propaganda del califfato ne fece un simbolo. Poi,
insieme a quei due ragazzi con cui era cresciuto tra le strade di Molenbeek,
distrusse le vite di 130 persone tra le strade di Parigi.
A tal punto entriamo dentro la
seconda autostrada jihadista, quella dei "foreign fighters". Questa è
forse la più grande e tragica operazione di comunicazione pianificata dagli
strateghi dell'Isis... Con la sola comunicazione virtuale un esercito non era possibile
costruirlo, si pensi che il paese musulmano che ha di più contribuito a fornire
combattenti al califfato è stata la Tunisia con circa 3000 unità, in tutto
ventimila tra i paesi nord-africani e mediorientali. Ma ancora non bastava,
considerato che complessivamente fino dalla sconfitta di Kobane l'Isis contava
su un contingente tra in 25 e i 30 mila soldati. La fonte di Intelligence più
accreditata per la ricostruzione quantitativa è quella statunitense.
Per il suo passato coloniale,
il paese, fuori dal Medio Oriente, dove vi sono le maggiori reti territoriali
per fare proselitismo è sicuramente la Francia, con cittadini di seconda e
terza generazione nord africana. E qui necessariamente la sociologia ci aiuta a
capire perché. C'è il discorso sul fallimento delle politiche d'integrazione
territoriale, che ha caratterizzato soprattutto la fase post mitterandiana. Ma
c'è anche il tema relativo al complessivo fallimento del modello di vita
occidentale, laddove la forbice tra Poteri istituzionali e quotidianità dei
popoli è sempre più ampia. E quando i diritti vengono negati, che ci sia la
crisi economica o meno, che la gente viva nei ghetti o che sia di estrazione
borghese, bisogna trovare nuovi significati da dare all'esistenza. Così, Stati
Uniti, Gran Bretagna, Belgio e Germania, soprattutto, hanno scoperto di avere
tanti nemici interni.
Lo stato
di emergenza e le proprietà transitive
Paura, inquietudine, rabbia
sono tutte emozioni inevitabili di fronte all'orrore. Certo, l'orrore ha tante sfaccettature,
soprattutto dal punto di vista geografico. C'era una regola raccontata nei
libri di giornalismo di tanti anni fa, era la legge di McLurg, che stabiliva la
graduatoria della notiziabilità di un fatto in rapporto alla prossimità
geografica: "Un evento catastrofico che coinvolge un limitato numero di
persone, ma accade vicino, è più notiziabile dello stesso tipo di evento che
coinvolge molte più vittime ma che accade assai lontano". Così veniva
fatta una graduatoria: un europeo morto equivale a 28 cinesi, due minatori
gallesi equivalgono a 100 pakistani. In questi ultimi tempi abbiamo scoperto
che questa non è soltanto una regola giornalistica, ma anche una forma di
gestione politica dell'orrore. Certo, sapere che a casa nostra l'orrore ci può colpire
da un momento all'altro, ci fa giustamente sentire vulnerabili ed inquieti.
Però se in Siria muoiono a causa della guerra 200 mila persone, questo non ci
fa ne caldo ne freddo. E se un milione cerca rifugio in casa nostra ci
infastidisce, per cui innalziamo i muri per non farli arrivare...
E' inutile nascondersi la
verità, perché la nostra è una società malata, e quello che succede in Medio
Oriente, non può essere disgiunto dalla nostra vita, e non solo quando le
guerre che si sviluppano lì vengono traslate da noi. Sono anni che si parla di
"guerra di civiltà", mentre abbiamo visto che la vera guerra si
combatte altrove tra gli stessi musulmani. Certo, in Francia c'è lo stato di
emergenza, prassi tipica di uno Stato in guerra. Ma in guerra contro chi? Dopo
le stragi di Parigi le semplificazioni prodotte dalle proprietà transitive si
sono sempre di più strutturate su un binomio... "Bastardi islamici":
musulmano è uguale a terrorista. Però, come spiegato dagli artefici della Carta
di Roma: "coerentemente allora avremmo dovuto titolare sulla strage in
Norvegia, compiuta da un fanatico cattolico: Eccidio cattolico...?"
Le guerre
mediorientali in Europa tra rabbia, tristezza ed inquietudine
Il racconto uscito fuori dopo la strage di Parigi, da parte dei media italiani, è stato avvolto dallo smarrimento semantico incentrato sulla fobia della guerra di civiltà, spingendo l'opinione pubblica dentro un labirinto dei segni. Non è stata spesa una parola sugli attentati di Beirut e sulla sconfitta dell'Isis a Sinjar da parte del popolo curdo, a distanza di poche ore dagli accadimenti francesi, come se tra questi eventi non ci fosse nessuna relazione.
Bologna, 15 novembre 2015 - La rabbia, la tristezza e l'inquietudine che
hanno assalito il mondo occidentale a causa della strage di Parigi, con il suo
tragico resoconto di morti, tra cui moltissimi giovani di varie nazionalità,
presenti ad un concerto o seduti nei ristoranti oppure nei bistrot, si sono
miscelate, almeno in Italia, alle analisi politico-mediatiche, alle volte
davvero sconcertanti, di pseudo giornalisti o politici smaniosi di apparizioni
televisive. Sono stati sottolineati concetti spesso fuori dalla realtà,
fuorvianti, tipici dei labirinti dei segni, cioè delle parole intrappolate in
costruzioni violente, ossessive, apocalittiche, che creano smarrimento,
ritornando sempre su un punto: "l'Europa è in guerra, e la guerra è di
civiltà..."
Sono mesi che cerchiamo di raccogliere le notizie che
provengono dal Medio Oriente, contestualizzarle, verificarle attraverso
analisti esperti, metterle in fila rispetto al principio cardine: comprendere
il mondo. E ci siamo resi conto come i labirinti dei segni giochino su una
sponda opposta a questo postulato: innescare il caos. A che serva tutto questo,
ognuno se ne faccia un'idea...
Un sistema militare territoriale
In Medio Oriente il Sedicente Stato islamico (IS) o
Stato islamico della Siria e del Levante (Isis) o ancora Daesch, negli
ultimi due anni ha messo su un esercito, tra le 25 mila e le 30 mila unità, con
lo scopo, potremmo dire delirante, d'impossessarsi dei due Stati in questione e
farne un califfato. Ora, l'elemento che salta agli occhi è la differenza delle
sue metodologie d'azione con l'organizzazione che l'ha preceduta, cioè
Al-Qaeda, quella che ha scosso il mondo con la strage delle torri gemelle.
Perché a differenza di quest'ultima l'Isis, si caratterizza per due elementi...
Il primo riguarda l'uso dei
kamikaze come strumento residuale della sua azione, poiché, a differenza di
Al-Qaeda, possiede un esercito irregolare che agisce direttamente sul campo di
battaglia. Il secondo concerne il suo principale bersaglio, proprio perché
sta sul campo di battaglia, non è l'occidente ma gli stessi musulmani, e
neanche soltanto sciiti, ma anche sunniti, vedi il cruento scontro bellico che
continuano ad avere con i curdi, che sono a maggioranza sunnita, anche se
le sfaccettature religiose di questo popolo sono storicamente variegate.
Il popolo curdo, unico vincitore sul territorio nei confronti dell'Isis
E qui entriamo nel primo grande labirinto dei segni,
perché la resistenza curda è quella che, proprio sui campi di battaglia,
ha messo un argine all'avanzata militare dell'Isis. Kobane, al confine tra
Siria e Turchia, è stata la prima area su cui si è combattuto. Una
resistenza militare quasi tutta portata avanti dalle donne, che dopo aspri e
cruenti combattimenti, che hanno praticamente raso al suolo l'80 per cento
della città, è riuscita a spodestare Daesch, ristabilendo un ordine costituito
all'interno del quale si sta creando un vero e proprio laboratorio
politico-territoriale. In pratica, l'Assemblea delle donne di Kobane ha
elaborato delle disposizioni di legge per il Cantone. Vengono vietati i
matrimoni precoci delle bambine, organizzati dalle famiglie, e viene vietata
anche la poligamia. Queste disposizioni vengono condivise sul territorio sia
attraverso forme di educazione sociale che diffuse nelle assemblee di
quartiere. L'intento è proprio quello di costruire una società democratica
basata sulle leggi delle donne.
Dal sito internet sulla rete internazionale del
Kurdistan, riportiamo una dichiarazione di Ruken Ehmet, dell'amministrazione
cantonale: "Abbiamo bisogno di fornire informazioni sulle leggi nel
modo più comprensibile. È solo attraverso l'educazione che possiamo cambiare
una società creata attraverso 5000 anni di dominazione maschile e di mentalità
patriarcale. La migrazione a causa della guerra ha colpito il nostro lavoro, ma
questo non significa che sia stato interrotto. Secondo le decisioni che abbiamo
assunto continueremo l'educazione in tutti gli ambiti della società. Attraverso
le assemblee di quartiere stiamo raggiungendo ogni persona. Le assemblee di
quartiere devono risolvere la questione delle donne. Le donne, gli eletti, e
tutte le amministrazioni quindi devono prendere forza e partecipare attivamente
a questo lavoro".
E qui ci imbattiamo in un assai contorto labirinto dei
segni, perché questo stesso popolo, che riesce a sconfiggere i tagliagole
dell'Isis, con le sue varie sigle, viene combattuto dal sultano turco Erdogan,
in quanto terrorista. Questo perché le medesime rivendicazioni di autonomia e
libertà che il popolo curdo avanza nei vari campi di battaglia mediorientali
contro l'Isis, li rivendica anche in Turchia, paese alleato degli Stati Uniti e
dell'Europa, con cui sta contrattando la sua entrate nell'Unione, per tenere
fuori dal continente quei rifugiati che scappano soprattutto a causa della
guerra dell'Isis in Siria. E' proprio di oggi la riunione del G20 in Turchia,
dove gli Stati Uniti richiedono la sua presenza al proprio fianco contro il
jihadismo. Dopo la vittoria elettorale di pochi giorni fa, Erdogan ha ripreso
una repressione spietata contro il popolo curdo, e l'esempio della resistenza
nella città di Silvan è esplicativa in termini assoluti.
Ma il labirinto dei segni a tal punto si fa sempre più
fitto, poiché le sigle della resistenza curda, presenti tra Silvan e Kobane,
sono state protagoniste della peggiore sconfitta inflitta all'Isis proprio
due giorni prima dell'assalto a Parigi: HPG (Forze di Difesa del Popolo), YJA
(Truppe delle donne libere), YBS (Resistenza Unita di Shengal) e YPJ (Unità di
difesa delle donne). E' la storia della liberazione di Sinjar, Shengal in
lingua curda, città posizionata nella regione autonoma del Kurdistan iracheno,
quella dei peshmerga.
Rispetto alle ricostruzioni giornalistiche fatte dai
media occidentali, sono stati proprio i peshmerga a liberare la città,
supportati dall'aviazione statunitense che ha aperto i varchi. In realtà,
andando a ricostruire i fatti attraverso l'agenzia di stampa curda ANF News,
abbiamo scoperto che insieme ai peshmerga il grosso dei contingenti militari
sul campo appartenevano proprio a quelle sigle, ignorate dai media occidentali,
che già da mesi cercavano di sfiancare l'Isis con attacchi sporadici.
L'Operation Free Sinjar, sostenuta dall'aviazione
americana, ha avuto lo scopo, di riprendere il controllo dell'autostrada 47,
cioè la via di comunicazione strategica per i rifornimenti dell'Isis, tra la
città irachena di Mosul e quella siriana di Raqqa. Questa arteria era
fondamentale per i rifornimenti logistici dell'Isis in Siria, che adesso avrà
molte difficoltà a portare avanti la sua offensiva. Nel frattempo la
liberazione di Sinjar ha permesso ai curdi di liberare moltissime donne yazidi
ridotte in schiavitù, 80 delle quali trovate morte in una fossa comune, dopo il
massacro perpetrato nel 2014.
Le alleanze asimmetriche
Ma ancora un altro labirinto dei segni esce fuori ad ingarbugliare
la comprensione dei fatti, relativamente alla situazione in Siria, dove vari
eserciti irregolari combattono contro l'Isis ma non solo. Diciamo che la lotta
è fra tribù di varie estrazioni, il popolo curdo e la resistenza al regime del
dittatore Assad, e questo solo per schematizzare. Fatto sta che quando si è
formata la strana alleanza asiatico-sciita pro-Assad, tra Russia, Iran e i
libanesi Hezbollah, il tema era chi costoro avrebbero dovuto combattere sul
campo...
Se la Francia decideva di intervenire chiaramente
contro l'Isis, i bombardamneti aerei della Russia, si sono concentrati su tutte
le forze in campo anti-Assad, anche quelle facenti parte del Fronte Democratico
Siriano, una rete di organizzazioni sotto l'egida statunitense, dove sono
presenti anche alcune sigle curde. In tal contesto il termine
"asimmetrico" è quello più utilizzato: guerra asimmetrica, alleanze
asimmetriche... Perché da un lato ci sono quelli che vogliono il dittatore
Assad ancora al potere, cioè l'alleanza asiatico-sciita, e dall'altro quelli
che lo vogliono defenestrare, cioè gli Stati Uniti, la Francia, il Fronte
democratico, con l'intero popolo curdo.
Poi c'è l'Isis che combatte contro tutti per fare il
suo califfato tra la Siria e l'Iraq, ma questa possibilità sembra ormai
sfuggirgli di mano dopo le perdite di Kobane, Sinjae e dell'autostrada 47, e
tra breve anche di Mosul. Così, in questa fase discendente, iniziata da
qualche mese, Daesch ha la necessità di rinsaldare le fila tra i suoi adepti e
di farne dei nuovi, poiché sembra, da quello che raccontano gli analisti, che
sia in perdita di cira 8000 unità. Ecco che allora decide di avviare le
campagne del terrore proprio finalizzate a rinsaldare le fila. Questo lo fa nei
due territori per l'Isis più agevoli: prima Beirut, poi Parigi.
Giovedi pomeriggio alle ore 17, poche
ore prima dalla carneficina di Parigi, presso Bourj al-Barajneh, sobborgo
meridionale di Beirut, sciita, controllato da Hezbollah, due kamikaze, si sono
messi in azione. Il primo a bordo di una moto-bomba si è fatto esplodere vicino
un centro commerciale, a poca distanza da una moschea. Il secondo ha aspettato
che la gente accorresse insieme ai primi soccorritori, facendosi esplodere in
mezzo alla folla. Bilancio di 43 persone morte e il ferimento di circa altre
200.
Abbiamo scoperto quindi che non esiste una guerra di
religione tra mondo musulmano e occidente, perché l'Isis si insinua in uno
scontro di potere aperto tra i paesi sunniti come l'Arabia Saudita, vicini
all'occidente e soprattutto agli Stati Uniti, e i paesi sciiti di cui leader
indiscusso è l'Iran. Ovviamente in questo contesto rientrano la
situazione della Libia e il conflitto dimenticato dello Yemen. Sono
queste le guerre asimmetriche in atto. E la strage di Parigi, come gli
altri attentati che ci sono stati in Europa, e presumibilmente quelli che
ci saranno, s'inseriscono nella logica di campagne mediatiche del terrore,
attraverso cui fare proseliti.
La chiave di volta nella campagna del terrore: foreign fighters
La chiave di volta della strage parigina è possibile
trovarla proprio nel passaporto di uno degli attentatori che si è fatto
esplodere: un francese, cresciuto in una Banlieu. Ora, al di là del discorso
sul fallimento delle politiche territoriali di integrazione delle seconde
generazioni magrebine in Francia, che ha pure un suo perché, qui il punto è che
nella capitale francese esiste la rete europea dell'Isis più strutturata. Li
hanno chiamati i "foreign fighters", cioè cittadini europei, tanto
uomini quanto donne, che decidono di arruolarsi nello stato islamico per andare
a combattere in Siria.
Dalla Francia, e soprattutto da Parigi, vengono
organizzate le partenze per la Turchia. Le persone vengono fatte arrivare ad
Istanbul e da lì trasportate ad Adana, a 200 chilometri dal confine con la
Siria. E' proprio quello lo snodo delle autostrade della jihad, percorse dai
cittadini europei che vogliono affiliarsi all'Isis. Lì c'è il supporto
logistico gestito da residenti turchi, dove hanno i loro appartamenti per il
periodo di messa in collegamento con il comando Isis oltre confine. Poi, dopo
il periodo di reclutamento, addestramento e combattimento ritornano in Francia,
allo scopo di farsi saltare in aria. L'esplosivo, a quanto spiegano gli
analisti, è facile averlo poiché vengono comprati in loco, attraverso internet,
gli elementi separati, per poi dopo assemblare la bomba. L'aspetto più
difficile da spiegare è come, nel caso parigino, siano riusciti a procurarsi le
armi da guerra; domanda che dovrebbe porsi l'intelligence francese, che sembra
non essere stata molto efficiente negli ultimi tempi...
Se quindi le vere guerre in atto sono combattute in
Medio Oriente, caso mai sarebbe più indicato parlare di una
"traslazione" dei conflitti mediorientali in Europa. Per cui è lì che
occorrerebbe intervenire per impedire le carneficine nelle città europee. Ma
forse gli interessi mediorientali in gioco sono così complessi e articolati per
gli Stati occidentali, e i loro capofila, che ricorrere ai labirinti dei segni,
per far credere ad una guerra di civiltà, è di più facile risoluzione...
Il presidente vince in Turchia le elezioni del terrore
Il partito di Erdogan guadagna la maggioranza assoluta in parlamento, tra
strategia del terrore, repressione della libertà di stampa, censura dell'opposizione,
gas lacrimogeni e misteri sullo svolgimento elettorale: un nuovo dittatore è
pronto ad entrare nell'Unione Europea.
Bologna, 2 novembre 2015 -
"Grazie a Dio, oggi è il giorno della vittoria della nostra nazione".
Con queste parole Ahmet Davutoglu premier del governo turco ha salutato la
vittoria del partito che governa dal 2002, attraverso cui il presidente Recep
Tayyip Erdogan è stato conclamato sultano del paese. Con un'affluenza dell'87,4
per cento, l'Akp (Partito islamico moderato Giustizia e sviluppo) ha guadagnato
il 49,4% dei voti e 316 seggi, aggiungendo dalle elezioni di giugno, che non
avevano dato una situazione di governabilità chiara, quasi 3 milioni e mezzo di
voti, superando la quota di 23 milioni, record dal 2011. Al secondo posto si è
piazzato il partito socialdemocratico Chp, con il 25 per cento e due seggi
guadagnati rispetto a giugno: 134 in tutto. In terza posizione c'è il partito
filo-curdo Hdp (Partito dei popoli democratici) con il 10,4 per cento, perdendo
3 punti percentuali e un milione di voti, raggiungendo i 59 seggi. Infine c'è
il partito nazionalista Mhp, che ha smarrito quasi due milioni di voti e la
metà dei suoi seggi, attestandosi a 41. L'unico rammarico per il sultano è che
non riuscendo ad arrivare a 330 seggi non è in grado di cambiare la
Costituzione in senso presidenziale, anche per mettersi al riparo dagli
scandali di corruzione, che lo vedono sotto i riflettori della magistratura,
sia lui che la sua famiglia.
Delle
81 provincie turche sembra non si siano salvate neanche quelle tradizionalmente
laiche come Smirne, dove l'AKP ha recuperato 8 deputati in più. L'unica area
che ha resistito all'assalto del partito-stato è il sud-est, dove risiedono i
curdi, i quali hanno permesso all' Hdp di superare la soglia di sbarramento del
10 per cento. Un successo comunque dato che gli è stato impedito di condurre
una campagna elettorale in senso democratico.
La
strategia del terrore, che tanti osservatori gli hanno attribuito dopo il voto
di giugno, ha dunque sortito gli effetti sperati, mentre la collera curda
esplodeva ancora prima delle velocissime procedure di sfoglio. A Diyarbakir
sono stati appiccati incendi, tra barricate, scontri con la polizia, gas
lacrimogeni e una decisa repressione. E questo potrebbe essere solo l'inizio di
una sorta di guerra civile da svilupparsi nelle città più grandi come Istanbul
ed Ankara, considerato che dal giugno di quest'anno tra le file curde ci sono
stati almeno duecento morti a causa della guerriglia sulle strade del sud-est.
Due
misteri hanno contraddistinto poi queste elezioni. Il primo riguarda la
decisione del sultano di non adeguare la Turchia al ripristino dell'ora solare,
come in tutti i paesi europei, rimandandola all'8 novembre, con la motivazione
che l'assenza di luce nel pomeriggio di domenica avrebbe potuto indurre molti
cittadini a non andare a votare. Una situazione un pò grottesca, visto che gli
strumenti informatici come tablet o computer venivano adeguati
elettronicamente, e questo ha creato caos nelle dinamiche sociali del paese. E
poi c'è la velocità straordinaria con cui è stato condotto o sfoglio delle
schede, i cui risultati certi sono arrivati in meno di due ore, tanto da far
parlare alcune forze dell'opposizione di inesattezza tra i conteggi di molti singoli
seggi e la gestione conteggi finali...
I tema del terrore: tra jihad e questione curda
La
Turchia è lo snodo delle autostrade della jihad, percorse dai cittadini europei
che vogliono affiliarsi all'Isis, per andare a combattere sul territorio
siriano: i cosiddetti "foreign fighters". Adana, in Turchia, a 200
chilometri dal confine con la Siria è proprio il luogo in cui si concentrano
quei cittadini europei che decidono di andare a combattere per la jihad. Sono
soprattutto giovanissime ragazze, come la piacentina residente in Francia,
scoperta ed espulsa qualche settimana fa. Attraverso il web le si mettono in
condizione di organizzare il viaggio verso la Turchia, dove ad accoglierle c'è
una base logistica, con cittadini turchi che gestiscono il periodo di attesa,
affittando appartamenti e monitorando i collegamenti con la Siria.
La
guerra all'Isis viene usata da Erdogan per assimilare nel mucchio del
terrorismo anche le istanze di libertà e indipendenza del popolo curdo, sia in
Siria, la cui resistenza combatte direttamente contro lo Stato islamico, che in
Turchia contro il PKK, con cui da quest'estate ha ripreso un vero e proprio
scontro armato. Quello che succede nel cantone di Kobane in Rojava, nel
Kurdistan occidentale, che copre il territorio della Siria settentrionale, è,
ad esempio, qualcosa di straordinario, nel contesto delle vicende che si
sviluppano in Turchia. L'Assemblea delle donne di Kobane, che ricordiamo sono
le principali protagoniste della resistenza militare sul territorio contro
l'Isis, ha elaborato delle disposizioni di legge per il Cantone. Vengono
vietati i matrimoni precoci delle bambine, e viene vietata anche la poligamia.
Queste disposizioni verranno condivise sul territorio sia attraverso forme di
educazione sociale che diffuse nelle assemblee di quartiere. L'intento è
proprio quello di costruire una società democratica basata sulle leggi delle
donne. E' questo il popolo definito terrorista dalla strategia del terrore di
Erdogan.
Ma il
maggior paradosso della questione curda in Turchia arriva proprio con la strage
di Ankara, costata la vita a più di cento persone, perpetrata, sembra
dall'Isis, proprio contro il popolo curdo, perché la manifestazione dove sono
morte quelle persone, per lo più giovani, chiedeva di trovare soluzioni
pacifiche proprio a favore del popolo curdo. Ecco che Erdogan ribalta il senso
della realtà, lanciando al paese la sindrome della paura e dell'instabilità,
usata sapientemente nel pieno della campagna elettorale.
II tema del terrore: i media di opposizione sono
terroristi
Praticamente,
a pochi giorni dalle elezioni, il presidente sultano ha sottoposto in
amministrazione controllata una holding, Koza Ipek, che controlla un gruppo
editoriale, composto sia da giornali che da emittenti televisive, critici nei
confronti dell'AKP. Tra questi vi sono alcune testate, direttamente accusate di
foraggiare le proteste di piazza, connotate in termini di "promozione del
terrore"... Ma la principale accusa è mossa soprattutto rispetto
all'ipotetico sostegno nei confronti di Fethullah Gülen, un predicatore
islamico, residente negli Stati Uniti, prima sostenitore dello stesso Erdogan
poi oppositore, e ovviamente per questo diventato leader di una organizzazione
terroristica.
All'interno
del gruppo editoriale Ipek, con sede a Istanbul, gravitano, appunto, varie
testate: i quotidiani Bugun e Millet e i canali Kanalturk e Bugun Tv. In
quest'ultima, mentre il giornalista leggeva in diretta le notizie della
mattina, annunciava anche che da un momento all'altro le trasmissioni potevano
essere interrotte dal governo, e così è stato. Nel frattempo, nella strada
adiacente 500 dimostranti, tra giornalisti ed esponenti politici
dell'opposizione, si radunavano per protestare contro un atto espressamente dai
toni fascisti ed antidemocratici. La polizia, presentatasi in tenuta
antisommossa, per tutta risposta utilizzava gas lacrimogeni e getti d'acqua per
disperdere la folla, mettendo in stato di fermo alcuni giornalisti.
In
realtà la scadenza elettorale dell'1 novembre è stata la vera questione sul
tappeto, che il sultano a voluto vincere a tutti i costi, per cambiare la
Costituzione, al fine di restare ancora al potere. Si pensi che negli ultimi 25
giorni il 90 per cento delle trasmissioni della Tv pubblica TRT, sono state a
lui dedicate, in spregio alla logica pluralista di una democrazia.
Uno dei
leader curdi, Demitras, intervistato dai networks internazionali, ha così
dichiarato:"In un modo o nell'altro per un lungo periodo di tempo siamo
stati oggetto di una moltitudine di pratiche illegali e incostituzionali, che
non trovano fondamento in alcuna legge nazionale o internazionale. In tal
senso, dunque, il raid non ci sorprende, tuttavia è un atto
inaccettabile".
Il patto per l'Unione Europea
Che la
fuga di massa dalla guerra siriana sia diventata un peso imbarazzante per la
Commissione Europea, è ormai un fatto assodato, per cui l'attivazione
dell'accordo raggiunto dalla Merkel per coinvolgere la Turchia, sulla creazione
di una zona cuscinetto nel nord del paese, finalizzata a non far passare i
rifugiati in Europa, è l'asso nella manica di una Europa che lentamente si sta
disintegrando. In tal senso non possiamo esimerci dal riportare un'affermazione
del Presidente della Commissione Junker, estremamente significativa: "Che
piaccia o meno dobbiamo cooperare con la Turchia... Esistono questioni
irrisolte sui diritti umani e la libertà di stampa... E' necessario muoversi
rapidamente perché Ankara è d'accordo affinché i profughi restino in
Turchia".
Che
piaccia o no, dunque, inglobare nell'Unione Europea un paese il cui leader non
rispetta i diritti umani e la libertà di stampa si può, basta che risolva la
grana dell'esodo dei rifugiati. In cambio vi è la promessa di accelerare
l'entrata di questa Turchia nell'Unione Europea, e in attesa che questo possa
avvenire, gli vengono assicurati altri benefit. Erdogan, interessato ad avere
mano libera nel suo paese, vorrebbe che la Turchia venisse riconosciuta come
"paese terzo sicuro", per impedire ai cittadini curdi, che stanno
combattendo in Turchia la guerra di resistenza, di chiedere asilo politico in
Europa. Poi ci sarebbe la liberalizzazione dei visti dei cittadini turchi per
l'Europa e non ultimo tre miliardi di euro per pareggiare il conto.
La guerra
dimenticata dello Yemen
30
ottobre 2015 - Sa'da è una cittadina yemenita del
nord-est, quasi al confine con l'Arabia Saudita, che conta circa sessantamila
abitanti. E' lì che era posizionato un ospedale di Medici Senza Frontiere,
distrutto, dopo quello in Afganistan, questa volta dalle bombe saudite. Dopo il
primo bombardamento il personale è riuscito ad evacuare la struttura e questo è
servito a salvare la vita ai pazienti. In seguito ad altri cinque bombardamenti
l'edificio è stato raso al suolo, provocando sette feriti. L'ospedale serviva
un'area di circa 200 mila persone e in un momento di guerra così accesa la sua assenza
provocherà una ennesima crisi umanitaria.
Secondo
il portavoce di MSF Hassan Boucenine, intervistato da Al-Jazeera, l'attacco è
stato intenzionale: "Appena due settimane fa avevamo fornito le coordinate
della struttura alla coalizione saudita... Non c'è alcuna ragione di colpire un
ospedale, questo è un crimine di guerra..." Mentre il Segretario dell'ONU
condanna il raid arabo, Amnesty International chiede una inchiesta
internazionale, in un paese dove il conflitto bellico si fa ogni giorno che
passa sempre più cruento, ricadendo soprattutto sulla popolazione civile. Un
ricordo ancora vivo è legato alle 140 vittime dell'attentato suicida alle due
moschee sciite della capitale San'a', il 20 marzo scorso, per mano dell'Isis.
Quello
yemenita è un conflitto, come avviene in Siria, in Iraq, in Libano e in
Afghanistan, di tipo regionale, per questo assai complesso da interpretare agli
occhi dell'occidente, che infatti lo ignora. Da un lato c'è il governo
provvisorio sunnita, supportato dall'Arabia Saudita, sostenitore del Presidente
Abd Rabbo Mansur Hadi, defenestrato dai ribelli Houthi, sciiti, che grazie
all'Iran hanno preso possesso di ampie parti del paese, appoggiati dalla
vecchia nomenclatura e da gruppi sul territorio sostenitori dell'ex presidente
Ali Abdallah Saleh, sciita anch'esso, di cui però Mansur Hadi era stato vice
presidente dagli anni novanta. Tutto questo in un paese dove sulle tribù si
fonda l'intero sistema sociale, e la cui economia si basa sui quei pozzi
petroliferi che dovrebbero esaurirsi nel giro di un paio di anni.
Ma
andiamo per ordine. I fatti che contraddistinguono oggi l'instabilità dello
Yemen, sono intimamente legati alle primavere arabe del 2011, e non rientrano
nell'agenda della comunità internazionale. Essi sottolineano come la speranza e
la fuga siano l'una il risvolto dell'altra, nel momento in cui un popolo aspira
a vivere in pace nel proprio paese. Forse si avvicina l'ora di un nuovo esodo
di massa, quello yemenita, appunto.
Nel
2011, in pieno fermento delle primavere arabe, un grande movimento di
opposizione si era formato nel paese, stimolato soprattutto dai giovani, che
nel rispetto della religione islamica, chiedevano diritti e democrazia. Tanto
forte fu la protesta che il Presidente Ali Abdallah Saleh fu costretto a
lasciare il potere. Da allora le vicende del paese hanno preso una strana
direzione, cioè quella della guerra di religione, tra sunniti, 60 per cento
della popolazione e sciiti, 40 per cento... Ma essi, come abbiamo detto, sono
fondamentalmente governati dall'esterno: i sunniti sono sostenuti dalla
confinante Arabia Saudita, vicina all'occidente e agli Stati Uniti, mentre gli
sciiti sono per l'appunto appoggiati dall'Iran, che contro gli Stati Uniti
combatte una guerra di posizione dall'avvento dell'ayatollah Khomeini.
Se
questa è la situazione di scenario, i fatti che si sono evoluti negli ultimi
anni raccontano di lotte per il potere da parte di due uomini, nel contesto di
una società tribale, che fino a pochi anni or sono era suddivisa in due
distinti paesi, separati da una linea geografica: il nord dal sud. E proprio in
questo Yemen riunito in un unica bandiera, almeno formalmente, si sono inseriti
i rappresentanti dello jihadismo estremo: prima al-Qaeda e ultimamente lo Stato
islamico, i quali si combattono tra loro, in una sorta di guerra parallela,
somigliante a quella siriana. Anche qui, comunque, ci troviamo di fronte a
delle maschere che rappresentano il potere inteso come solita rappresentazione
di morte, quella che contraddistingue ormai "vocazionalmente" i paesi
al di sotto del Mediterraneo.
Ma
vediamo i principali personaggi ed interpreti di questo ennesimo dramma
mediorientale. Ali Abdallah Saleh è forse l'uomo che rappresenta il passaggio
chiave della storia recente yemenita, una storia di guerre civili che si
succedono praticamente dagli anni sessanta, passando dal marxismo al populismo
ed infine, appunto, all'islamismo. Sciita zaidita, Saleh prese il potere nel
1978 nello Yemen del nord, restandoci con l'unificazione del 1990. Nel '94 si riaccese
una breve guerra civile, legata, come avviene spesso in questi casi, a rendite
di posizione, tra nord e sud. Il generale sunnita Abdrabuh Mansour Hadi, aiutò
Saleh a mettere fine alla nuova contesa, diventando il suo vice fino al 2011.
Poi, divenne presidente, grazie ad un accordo di transizione del Consiglio di
Cooperazione del Golfo. Saleh accettò senza fare tanti problemi, però chiese ed
ottenne immunità. Infatti vive ancora nella storica capitale di Sana'a, in un
castello che è una sorta di fortezza, con un piccolo esercito a proteggerlo.
Dopo la
stagione delle primavere la situazione si è solo apparentemente stabilizzata,
poiché lo Yemen essendo geograficamente una sorta di crocevia tra Asia ed
Africa, come sottolineato dalla rivista Limes, ha attirato cammin facendo tutte
le maggiori e più radicali correnti dello jihadismo: da Shabab, tra Somalia e
Kenia, allo Stato islamico siro-iracheno, al fondamentalismo centro-asiatico,
di uzbeki e ceceni...
Ma
essendo terra di tribù, nel 2014 il movimento Houthi usciva allo scoperto per
avere una maggiore influenza sulla distribuzione del territorio, un diritto
derivato dal fatto di essere i diretti discendenti degli imam, ma anche dal
fatto che costituiscono un terzo dei 25 milioni di abitanti che compongono la
popolazione yemenita. Gli Houthi sono sciiti zaiditi, il medesimo ceppo dell'ex
presidente Saleh, quello che vive dentro una fortezza nella capitale. E lui il
deus ex machina di questa operazione bellica orchestrata dall'Iran, che
fornisce armi ad un movimento che nel giro di pochissimo si è trasformato in
esercito.
Nel
gennaio del 2015 questo esercito irregolare entrava nella capitale Sana'a e se
ne impossessava, al punto che il presidente Mansour Hadi veniva defenestrato.
Qualche mese prima la Conferenza sul Dialogo Nazionale (CDN), cercava di
redistribuire il potere tra le diverse tribù, risalenti all'epoca pre-islamica.
Infatti era stata avviata una sorta di transizione politica per combattere
al-Qaeda sul territorio, la quale riusciva ad impiantare le sue radici grazie
all'insofferenza di alcune tribù sunnite, infastidite dalle logiche espansive
degli Houthi.
Nel
2014 Mansour Hadi cercava una pacificazione con la tribù sciita appoggiata
dall'Iran, tanto da proporre un governo di unità nazionale. In un primo momento
gli Houthi accettarono, poi ci ripensarono ed iniziarono l'operazione della
presa di San'a' con il rapimento del capo dello staff presidenziale. Nel mese
di gennaio l'offensiva militare sciita penetrava il palazzo presidenziale. Hadi,
formalmente si dimetteva, ma con l'aiuto dei sauditi si rifugiava nel sud del
paese, ad Aden, dove lì si insediava insieme al suo primo ministro Khaled
Bahah, trasformando la città in nuova capitale provvisoria. Mentre il Comitato
rivoluzionario degli Houthi nominava a San'a' il suo presidente, Mohammed Ali
al-Huthi.
Durante
tutto il 2015 la recrudescenza del conflitto in Yemen si è sviluppata tra gli
attentati jihadisti in moschee, strade e mercati, mentre l'offensiva aerea
saudita, con le bombe a grappolo fabbricate negli Stati Uniti, ha colpito case,
scuole, ospedali, linee elettriche, approvigionamenti idrici ed un sito
patrimonio dell'Unesco. In contemporanea la marcia verso Aden degli Houthi ha
determinato violenze punitive contro la popolazione civile e le loro proprietà,
senza farsi scrupolo di utilizzare bambini soldato. E tutto questo nel silenzio
dei media occidentali, così quando il popolo yemenita inizierà a fuggire per
salvarsi la vita in Europa, i ben pensanti, probabilmente, ripeteranno le stesse
filastrocche di sempre: "bisogna aiutarli nel loro paese..." Oppure:
"Non possiamo ospitare tutti..." O ancora: "Vengono a toglierci
il lavoro..."
Come affiliarsi all'Isis
Espulsa dalla
Turchia la diciassettenne italiana in procinto di unirsi al terrorismo
jihadista.
Bologna,
22 ottobre 2016
- S. H. Non ha ancora compito 16 anni. Nata nella provincia di Piacenza, con
passaporto italiano, vive nella periferia parigina con la sua famiglia. Tre
settimane fa, da sola, mentre i genitori non erano neanche in Francia, decide
di fare un viaggio verso Adana, in Turchia, a 200 chilometri dal confine con la
Siria. E' proprio quello lo snodo delle autostrade della jihad, percorse dai
cittadini europei che vogliono affiliarsi all'Isis, per andare a combattere sul
territorio siriano: i cosiddetti "foreign fighters".
Presumibilmente, la ragazza, il
viaggio non lo ha affrontato da sola, poiché sono state fermate altre quattro
cittadine francesi, ma anche tedesche, una tunisina, un'egiziana,
un'indonesiana ed una saudita. La sua giovane età ha insospettito la polizia
turca, che l'ha trattenuta in un centro di detenzione, dell'ufficio
immigrazione locale.
Da ciò che si evince, dalle
scarne notizie filtrate, sembrerebbe che le ragazze fossero supportate da un cittadino
turco, arrestato dalla polizia per essere fiancheggiatore dello Stato Islamico.
Questo avrebbe fornito supporto logistico alle aspiranti reclute jihadiste del
Califfato, aiutandole ad affittare un appartamento ad Adana, ma anche
mettendole in collegamento con il comando dell'Isis oltre confine, in attesa di
partire.
Al momento del fermo il
Ministero degli Esteri italiano aveva confermato il fatto, sottolineando che se
ne sarebbe occupato il consolato di Smirne, in stretto contatto con la famiglia
e le autorità locali, anche perché occorreva stabilire se la ragazza avesse
carichi pendenti sul territorio turco. Ieri la vicenda si è conclusa con la sua
espulsione.
Ma la protagonista di questa
storia non è certo l'unica italiana tra i potenziali "foreign
fighters": i dati parlano di 81 persone, tra cui molte donne, come il caso
esploso quest'estate... Maria Giulia Sergio, donna ventottenne, di origine
napoletana ma che viveva nel milanese, insieme al marito albanese, cerò di
cooptare dentro l'Isis la sua famiglie e quella di suo marito, che poi vennero
arrestati.
Molti elementi restano comunque
oscuri in questa ultima vicenda: come sono riuscite a collegarsi alla rete
jihadista le ragazze partite da Parigi? Chi ha finanziato il viaggio e come è
stato organizzato? Presumibilmente tutto è avvenuto attraverso web, come
esperienza insegna... Ma ci sarebbe anche da chiedersi com'è possibile che i
genitori siano stati dei fantasmi, rispetto alla scelta dell'adolescente
piacentina... E ancora di più, ci sarebbe da domandarsi: come arriva una
sedicenne a sposare la causa jihadista dell'Isis...? Perché è troppo facile
pensare che i paesi europei e i loro governi, da cui fuggono questi giovani,
non abbiano nessuna responsabilità in tutto questo...
La Turchia e i suoi
misteri in odore di servizi segreti
Una giornalista, che indagava sull'Isis, si è
impiccata nel bagno dell'aereoporto di Istanbul, dicono le autorità turche, con
i lacci delle scarpe, presa dallo sconforto per aver perso una coincidenza.
Bologna,
19 ottobre 2016
- Anadolu Jacky Sutton era una giornalista di guerra, aveva lavorato per tanti
anni alla BBC, una di quelle che sa il fatto suo, cioè abituata a stare nei
campi di battaglia per descrivere le azioni di guerra e le atrocità che ne
derivano. Per questo era diventata la direttrice dell'Istituto per il
giornalismo sulla pace e sulla guerra (Institute for War and Peace Reporting),
una Ong inglese che non lavorava però in Gran Bretagna, bensì in Iraq. Una
donna abituata a viaggiare per lavoro e a trovarsi in situazioni, spesso,
pericolose. Infatti stava raccogliendo informazioni per un'inchiesta sul
rapporto tra l'Isis ed il mondo femminile.
La Sutton era atterrata sabato,
sembra alle 22, da Londra, con un volo della Turkish Airlines, all'aereoporto Ataturk
di Istanbul. Era diretta a Ebril, in Iraq, per continuare a svolgere il suo
lavoro. Una volta atterrata nella metropoli turca, perdeva la coincidenza. A
questo punto la ricostruzione ufficiale delle autorità turche, lanciata da
un'agenzia di stampa nazionale, è tutta da "gustare". Secondo questa
ricostruzione, la giornalista, si rivolgeva al desk dell'aereoporto per trovare
una soluzione con un nuovo volo, e quando gli veniva detto che avrebbe dovuto
comprare un nuovo biglietto, ella rispondeva di non avere denaro sufficiente e
per questo scoppiava in lacrime. Poi, presa dallo sconforto, s'indirizzava in
un bagno dell'aereoporto e s'impiccava con dei lacci delle scarpe... Tre ore
dopo veniva ritrovata da dei turisti russi.
Una ricostruzione così incredibile
che lascia davvero basiti: una inviata di guerra, direttrice di una Ong in
Iraq, che passa la sua vita a viaggiare, s'impicca presa dallo sconforto perché
perde una coincidenza...? Tra l'altro la Sutton, a quanto dichiara Anthony
Borden, direttore esecutivo dell' Institute for War and Peace Reporting, sapeva
che l'organizzazione avrebbe pagato per un nuovo volo, prassi normale in questi
casi.
Ovviamente colleghi e amici
della Sutton hanno messo a ferro e fuoco il web, parlando chiaramente di un omicidio,
collegandolo ad Ammar Al Shahbander, collega della donna ucciso a maggio con
altre 17 persone con un'autobomba a Baghdad. Ecco perché a gran voce viene
chiesta un'indagine internazionale, dato che l'impressione di un insabbiamento
è fortissima, dai pochi ma sconcertanti elementi che emergono. Come quella
della telecamera adiacente al bagno, che non può essere utilizzata come
elemento d'indagine perché non funzionante. E che dire dei funzionari di
sicurezza dell'aereoporto Ataturk, che non rispondono alle richieste di
chiarimento della stampa.
Ma la domanda che sorge
spontanea è: per quale motivo le autorità turche sono interessate ad insabbiare
l'omicidio di una giornalista che indagava sull'Isis...? Ora,
contemporaneamente a questo evento tragico, sia per l'efferatezza che per il
tentativo di insabbiamento delle autorità turche e della sua agenzia di stampa
nazionale, arriva una notizia dall'Ansa che solo apparentemente racconta
un'altra storia: "L'operatore statale unico di comunicazione satellitare
in Turchia, Turksat, ha trasmesso ai suoi network l'avviso di interrompere
entro un mese le trasmissioni di 7 canali televisivi ostili all'Akp di Erdogan,
pena l'interruzione dei loro contratti. Lo riferiscono media locali a due
settimane dal voto anticipato in Turchia".
E che dire di quello che a
poche ore dalla misteriosa morte della giornalista accadeva in Turchia...? Si
perché la Cancelliera Merkel ed il Presidente Erdogan, soprannominato il
sultano, s'incontravano per agevolare l'entrata della Turchia nell'Unione
Europea, in cambio della creazione di una zona cuscinetto nel nord del paese,
che possa fermare l'ondata di rifugiati che cercano di entrare in Europa...
Le guerre mediorientali
tra la cattiva coscienza e gli interessi dei governi occidentali
Il governo
giordano starebbe tentando una mediazione alle Nazioni Unite per far approvare
una dichiarazione finalizzata ad interrompere la violenza tra gli israeliani e
i palestinesi.
Bologna,
17 ottobre 2015
- Mentre ieri Israele schierava le truppe sul confine di Gaza, Hamas lanciava
la giornata della collera, invitando i palestinesi di Gisgiordania e
Gerusalemme est a manifestare nelle strade. Così i militari israeliani hanno
impedito l'accesso alla spianata delle moschee, agli uomini sotto i quarant'anni,
per il venerdì di preghiera, dopo che nella notte un gruppo di giovani aveva
dato fuoco ad alcune parti della tomba di Giuseppe a Nablus. Le forze di
sicurezza israeliane sono riuscite a riprendere il controllo del sito e
spegnere l'incendio. Nella giornata della collera quattro palestinesi sono
rimasti uccisi tra la Cisgiordania e Gaza. Anche in questa occasione sono stati
gli adolescenti palestinesi i protagonisti degli scontri, facendo aumentare il
conteggio dei morti.
Nel frattempo in Siria continua
la battaglia su Aleppo, il cui controllo è nelle mani dell'Isis. Attorno alla
città però a combattere ci sono i ribelli siriani anti Assad. Le truppe
siriane, spalleggiate dagli Hezbolla e da gruppi militari iraniani, hanno
l'appoggio aereo della Russia. Dalle notizie che sono pervenute, sembra che
oltre all'Isis siano stati colpiti anche i ribelli anti Assad. In questa
girandola di violenza bellica, la presa di Aleppo sembra essere strategica per
la sopravvivenza del regime, ecco perché i ribelli siriani vengono considerati
nemici dal cartello russo-sciita andato in soccorso del dittatore siriano.
Intanto la ong Osservatorio nazionale per i diritti umani ha conteggiato i
numeri delle tre guerre che attualmente si stanno combattendo in Siria: 250.000
morti, ma la stima è approssimativa, 2 milioni di feriti, 12 milioni di
sfollati, dei quali oltre 4 milioni rifugiati all'estero.
Nella guerra dimenticata dello
Yemen continuano gli scontri tra i ribelli sciiti houthi ed il governo sunnita
appoggiato dall'Arabia Saudita, che ha bombardato ieri uccidendo 21 ribelli nel
sud del paese, mentre nella città di Hodaida, veniva assaltato un edificio
governativo con granate e mitragliatrici. Poi veniva fatta esplodere
un'autobomba. Il bilancio dei morti è stato di 10 soldati uccisi tra le file
governative e due attentatori tra le file di al Qaeda. Intanto secondo quanto
dichiarato dal viceministro israeliano alla cooperazione regionale, Ayoob Kara,
le autorità dello Yemen avrebbero invitato tutti i cittadini ebrei a lasciare
il paese per l'inasprirsi della guerra tra sunniti e sciiti. Per restare in
Yemen l'unica possibilità è quella di convertirsi ad uno dei due ceppi
religiosi.
Intorno
al Medio Oriente
Bologna,
16 ottobre 2015
CISGIORDANIA
La nuova ondata di violenza, tra Cisgiordania e Israele: otto morti gli israeliani e 31 i palestinesi.
La controversa storia di questa nuova intifada palestinese continua ad intrecciarsi. A Betlemme si susseguono gli scontri tra manifestanti palestinesi e militari, mentre nella città israeliane si perpetrano gli attacchi dei giovani arabi contro i cittadini ebrei, creando una nuova situazione di tensione che mai prima si era vissuta. L'unico elemento che rimane uguale al passato è il bilancio delle vittime che tra i palestinesi è sempre molto più alto. Ma certo anche qui c'è forse una differenza e cioè che in questo caso le morti in campo israeliano sono prevalentemente civili, visto gli assalti dei giovani arabi ai cittadini per strada con coltelli e martelli, tema su cui si stanno concentrando le attenzioni dei media internazionali.
Tutto è nato dai fatti del luglio scorso, quando la polizia israeliana occupava a Gerusalemme la Moschea di Al Aqsa, dove dei giovani si erano rifugiati in seguito ad una manifestazione per impedire ai fedeli di religione ebraica, durante la festività Tishà Beav, commemorazione della distruzione del tempio di Gerusalemme da parte dei romani nel 70 dopo Cristo, di accedere alla spianata delle moschee. Un evento questo che ricorda la provocazione dell'allora leader dell'opposizione israeliana Sharon, quando nel 2000 percorse la spianata, determinando la seconda intifada.
In questo caso, proprio perché i primi a protestare sono stati i giovani palestinesi, attraverso i social network si è innescato un tam tam tra gli adolescenti arabi inneggiando alla vendetta, che ha scatenato questo nuovo tipo di violenza spontaneistica, stigmatizzata in modo opposto, ovviamente, dalle autorità israeliane che accusano i leader palestinesi e viceversa.
Da un reportage del giornale francese RFI, colpisce un'intervista dentro un'armeria di Gerusalemme, dove un uomo già armato, va in cerca di una pistola per la consorte: "Siamo venuti a vedere se mia moglie potesse imparare a sparare..." L'elemento cioè della giustizia fai da te, che serpeggia per le strade delle città israeliane, cambia notevolmente i tratti di questa nuova intifada.“Israele – ha dichiarato il primo ministro – sta usando esattamente la stessa forza legittima che qualsiasi governo, città o forza di polizia userebbe di fronte a gente che impugna coltelli, mannaie e asce per uccidere persone sulla strada. Cosa credete che succederebbe a New York se ci fossero persone che si gettano nella folla per uccidere? Cosa credete che farebbero?”
Noi non sappiamo cosa farebbero, però potremmo supporre, traslando la situazione, che essendoci negli Stati Uniti, quantomeno, la libertà di culto, il rispetto per una religione differente, non innescherebbe intifade per le strade...
TURCHIA
Mentre l'Unione Europea stringe un accordo con la Turchia per trattenere i rifugiati, al confine con la Bulgaria un uomo afghano viene ucciso una volta entrato nel paese.
Mentre l'Unione Europea stringe un accordo con la Turchia per trattenere i rifugiati, al confine con la Bulgaria un uomo afghano viene ucciso una volta entrato nel paese.
L'accordo stretto ieri al summit europeo di Bruxelles con la Turchia sottoscrive la possibilità di trattenere lì i rifugiati che cercano di raggiungere i paesi europei. La motivazione che la Cancelliera tedesca Merkel ha espresso possiede i contorni di un'ambiguità tipica della Fortezza Europa. Si dice infatti che "i migranti dovrebbero essere ospitati più vicino ai loro Paesi di provenienza piuttosto che mantenerli nei nostri Paesi".
Sullo sfondo vi è una situazione complessiva che colpisce... In Turchia infatti, dalla recrudescenza della guerra in Siria, sono arrivati circa 2.000.000 di rifugiati, molti dei quali si sono insediati in città e villaggi nel sud del paese, presso la zona di confine con la Siria. In alcune di queste città il numero dei rifugiati ha superato quello dei residenti, ma questo non ha causato ne scontri, ne conflitti sociali. Anzi, come racconta l'inviato dell'Osservatorio Balcani Caucaso Dimitri Bettoni, molte famiglie turche che lavorano nei campi, hanno ospitato altre famiglie siriane proponendogli di lavorare insieme a loro.
Il paradosso che l'attuale governo turco, che non è certo un esempio di democrazia, pur non rispettando la convenzione di Ginevra, che impone ai governi sottoscrittori di accogliere chi scappa da guerre e persecuzioni, è disponibile ad ospitarne milioni, mentre gli stati europei, litigano per la divisione della quota di 160.000.
Nel frattempo al posto di confine tra la Turchia e la Bulgaria, che ha anch'essa eretto muri di filo spinato, nei pressi della città di Sredets, è stato ucciso un rifugiato afghano, che insieme ad un gruppo di 50 connazionali, una volta riusciti ad entrare nel paese, sono stati intercettati dalle guardie di frontiera, le quali hanno sparato colpendo l'uomo. Le autorità bulgare si sono premurate a spiegare che trattandosi di "migranti illegali" essi cercano di entrare da vie più perigliose non coperte dalla recinzione.
Oggi Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell'Unhcr, ha sottolineato che secondo le leggi internazionali, a cui la Bulgaria è soggetta, non è possibile che la polizia impedisca il passaggio a chi deve chiedere l'asilo politico.
Cronache mediorientali
Bologna, 14
ottobre 2015
ISRAELE
L'intifada dei coltelli e la chiusura dei quartieri arabi.
L'intifada dei coltelli e la chiusura dei quartieri arabi.
“In seguito ai continui
attacchi contro gli israeliani da parte degli arabi la polizia sarà autorizzata
ad imporre la chiusura dei quartieri di Gerusalemme dove si incita alla
violenza… Ai terroristi saranno revocati i diritti di residenza permanente”. E'
questo l'annuncio emesso ieri da un ufficio governativo israeliano a dodici
giorni dalle recrudescenze di violenza che sta coinvolgendo Cisgiordania e
Israele. Questa volta però la dinamica della violenza ha caratteristiche del
tutto nuove, poiché sia a Gerusalemme che a Tel Aviv, i protagonisti sono
giovanissimi dai tredici ai vent'anni, connotati sempre come terroristi, che
non utilizzano più le pietre per combattere contro l'esercito sulla striscia di
Gaza, ma adesso usano coltelli e martelli in luoghi di raccolta delle città:
dalla fermata degli autobus alle piazze e strade affollate. Sono aggressioni
imprevedibili e velocissime, che stanno infondendo una nuova forma di tensione
e paura.
Di contro ormai persino le
istituzioni israeliane istigano la popolazione all'autodifesa e alla vendetta,
come quella accaduta proprio ieri a Raanana, a nord di Tel Aviv. In seguito ad
un accoltellamento, trasformatosi in omicidio, la gente accorsa in soccorso
dell'agente immobiliare aggredito ha immobilizzato l'autore dell'aggressione
massacrandolo di botte.
Se Netanyahu accusa Abu Mazen
di istigazione al terrorismo dei giovani palestinesi, secondo un sondaggio, a
quanto afferma il giornale francese “Liberation”, il 75 per cento degli
israeliani si dice insoddisfatto delle modalità di gestione del nuovo ciclo di violenze,
mentre le comunità arabe in Israele, proprio ieri, hanno manifestato per le
strade la loro vicinanza ai cittadini della Cisgiordania.
SIRIA
Assad e Putin avanzano verso Aleppo.
Assad e Putin avanzano verso Aleppo.
La guerra in Siria sta per
avere una svolta significativa nel contesto dello scenario bellico. Alle forze
fedeli ad Assad si sono unite le frange libanesi di Hezbollah, intorno alle
20000 unità. A questi si aggiungono altre forze messe in campo direttamente
dall'Iran, che in questo caso, oltre a finanziare gli Hezbollah, stanno facendo
confluire reparti armati di terra. Poi c'è la copertura aerea garantita dalla
Russia di Putin, per la pianificazione della strategia finalizzata a riprendere
Aleppo. Queste forze di terra sono coordinate da una sorta di rete militare
chiamata Quds, che agisce in Iraq, Yemen, Siria e Libano.
Ma chi sono i loro nemici da sconfiggere per la presa di Aleppo? Sono due delle forze in campo che si combattono vicendevolmente. Da un lato l'Isis e dall'altro I ribelli siriani, che vogliono la cacciata di Assad, per instaurare una democrazia in Siria.
Ovviamente la motivazione ufficiale di questa alleanza tra Iran, Siria e Russia individua il nemico nell'Isis. Ma è chiaro che le mire sono quelle di annientare chiunque si opponga al potere del dittatore siriano. Intanto, nelle ultime ore, gli aerei russi continuano a bombardare varie città tra cui Aleppo, mentre scontri cruenti tra le forze governative e i ribelli siriani continuano a svolgersi per la conquista della città di Kafr Nabuda. Qui i ribelli hanno organizzato una resistenza grazie alle armi pesanti fornite dagli Stati Uniti, ed attendono che i paesi arabi, che combattono in altre regioni l'Iran, come lo Yemen, vadano in loro aiuto.
Una strage per la tensione
Secondo il governo turco i responsabili della strage di Ankara che è costata la vita a più di cento persone e 400 feriti, ma il bilancio delle vittime sembra destinato a salire, si aggirano in un range di tre possibilità: l'Isis, le organizzazioni di estrema sinistra e il PKK.
Bologna 12 ottobre 2015 -
Questa notizia letta così pone in essere un quesito giornalisticamente
interessante, perché in quella manifestazione migliaia di ragazzi stavano
manifestando proprio per costringere il governo turco a cessare la guerra ai villaggi
curdi difesi dal PKK. Il fatto che questa organizzazione possa diventare
mandante contro se stessa rivela un chiaro tentativo di manipolazione di quello
che ormai viene definito il nuovo Sultano: il presidente Erdogan.
E
ancora, in una situazione in cui un paese che vive una sorta di guerra civile
ormai da quest'estate, con la ripresa delle ostilità da parte del governo
contro le città curde in Turchia, che è sfociata nell'impedire ai cittadini
curdi di andare in soccorso ai combattenti contro l'Isis a Kobane, e dopo che
lo stesso PKK ha annunciato di volere unilateralmente cessare le ostilità fino
alle elezioni che si terranno fra tre settimane, il governo turco anziché
stemperare la tensione, butta benzina sul fuoco continuando a bombardare i villaggi
curdi e le postazioni del PKK, implementando lutti e distruzioni...
Le urla
dei manifestanti in tante città turche di questi ultimi due giorni, si
scagliano contro il potere del sultano, individuando nello slogan "strage
di stato" il topic del tragico evento, ma anche potremmo dire di tutta la
questione curda, che ricordiamolo ha proprio generato la rabbia di Erdogan nel
momento in cui in giugno il partito moderato curdo dell'avvocato dei diritti
umani Selahattin Demirtaş, ha praticamente vinto le elezioni, col suo 13 per
cento, impedendo di guadagnare la maggioranza assoluta al sultano, per poter
fare una repubblica presidenziale e governare ancora più indisturbato.
Intanto,
il sultano continua ad intervenire sulla libertà di stampa impedendo alle emittenti
televisive turche di mandare in onda le immagini della strage, cercando
addirittura di impedire di mettere dei fiori nel luogo del lutto, innalzando
insomma il livello della tensione affinché, dicono gli osservatori, possa
gestire col pugno duro la tornata elettorale del primo novembre, che deve a
tutti i costi vincere in modo assoluto, se vuole continuare a regnare per un
altro decennio.
Turchia: vietato
protestare
Manifestazione a Istanbul per protestare contro il
potere autoritario del Presidente Erdogan.
Bologna
11 ottobre 2015
- Diecimila persone sono scese in piazzza irei sera per manifestare la propria
rabbia contro il Presidente Erdogan e l'uso del potere autoritario
dell'autocrate islamico. I manifestanti si sono diretti verso piazza Taksim al
grido di "Erdogan dimettiti". La strage che nella mattinata di ieri,
ha prodotto un bilancio di 97 morti e 400 feriti, viene fatta risalire dai
manifestanti e dalla forze di opposizione curda, all'azione repressiva del
governo di Ankara nei confronti del PKK, che si è riaccesa nel giugno di
quest'anno, quando Erdogan ha rotto l'accordo di pace, arrivando in seguito ad
impedire, a pezzi del popolo curdo in Turchia, di andare in soccorso dei
combattenti di Kobane contro l'Isis. Da allora è ripresa un'azione di
guerriglia per le strade delle città turche, in risposta ai bombardamenti dei
villaggi curdi in Turchia che hanno prodotto morti e feriti.
Manifestazioni hanno avuto
luogo anche in altre citta' turche, tra cui Smirne, Batman e Diyarbakir, dove
la polizia ha utilizzato gas lacrimogeni per disperdere la folla.
Il governo di Ankara, che ha indetto tre giorni di lutto cittadino per l'attentato, dice di individuare nell'azione di due kamikaze la dinamica della strage, che non è stata rivendicata.
Il governo di Ankara, che ha indetto tre giorni di lutto cittadino per l'attentato, dice di individuare nell'azione di due kamikaze la dinamica della strage, che non è stata rivendicata.
Il
PKK ha, dal canto suo, ha fatto sapere che fino alle elezioni che si terranno
fra tre settimane, se non verranno attaccati, attueranno un cessate il fuoco
unilaterale, per garantire che la tornata elettorale possa svolgersi in una
situazione sociale di tranquillità.
Tra tumulti e proteste
Bologna, 10 ottobre 2015
CISGIORDANIA
Ormai l'ondata di violenza in tutta la Cisgiordania sembra inarrestabile.
Ormai l'ondata di violenza in tutta la Cisgiordania sembra inarrestabile.
Tra ieri e oggi si contano
quattro morti e una sessantina di feriti. Si combatte a Gerusalemme est, a Kafr
Qaddum nei pressi di Tulkarem, Betlemme, al cheikpoint di Huwwara (Nablus),
Jenin, Hebron, Ramallah. Nella striscia di gaza si contano due morti. Il
ministro degli Interni israeliano ha avviato le procedure di revoca per i
residenti palestinesi di Gerusalemme est, mentre durante il venerdì di
preghiera il capo del movimento islamico palestinese, Ismail Haniyeh ha parlato
di terza intifada.
TURCHIA
Mandato d'arresto per il giornalista Bulent Kenes, accusato di vilipendio allo Stato.
Mandato d'arresto per il giornalista Bulent Kenes, accusato di vilipendio allo Stato.
In un tweet ha apostrofato il
Presidente della Repubblica Erdogan come un dittatore. Kenes, direttore del
quotidiano di opposizione Zaman, a lungo si è schierato contro la politica
autoritaria del governo. Sempre in linea con il sistema di potere liberticida,
nella stessa giornata, sono stati condannati per vilipendio altri due
giornalisti della testata indipendente Sozcu.
Salgono a 86 i morti e 126 i feriti delle due esplosioni duranate una manifestazione della pace nei pressi della stazione di Ankara.
La manifestazione, organizzata
da sindacati e organismi della società civile, era appena cominciata, decine di
giovani inneggiavano alla pace in un paese in grande fermento, tra le vicende
del popolo curdo e i metodi autoritari dell'attuale potere sunnita del
Presidente Herdogan. Le due esplosioni ravvicinate hanno innescato il terrore,
mostrato in un video che sta facendo il giro del web. La manifestazione è stata
immediatamente annullata. Il governo ha stigmatizzato l'accaduta, parlando
ovviamente di attacco terroristico, messo a segno da due kamikaze. Fonti
giornalistiche hanno elaborato ipotesi sul nazionalismo turco, che però è
vicino la potere costituito.
Morire per
essere un giorno liberi
Bologna, 21 settembre 2015 - Dal 2011 ad oggi sembra siano 200.000 le
vittime della guerra civile in Siria. Ma questa è una cifra fantasma poiché
ormai nessuno è più in condizione di fare un conteggio. Allo stato attuale il
conflitto nel paese è l'insieme di più conflitti in uno, poiché il territorio
nazionale è suddiviso in aree territoriali frammentate, controllate da eserciti
diversi. L'Isis è nel nord est, e combatte principalmente con la resistenza
kurda, dove Kobane diventa il territorio da espugnare vicendevolmente.
L'esercito governativo di Bashar Assad ha la sua
roccaforte a Damasco e in alcune zone dell'est, mentre l'Esercito Libero
Siriano, combatte permanentemente contro i governativi su Aleppo, e su altre
zone a macchia di leopardo nel paese. Quest'ultimo è suddiviso in più brigate
che sembrano essere scollegate le une dalle altre. E in questo caos di città
deserte e distrutte, dove non c'è più niente e dove devi camminare con
l'elmetto, si aggiungono bande spontanee: alcune sembra qaediste altre senza
matrice.
E' praticamente una nazione dove chi non decide di
scappare deve convivere permanentemente con la morte. Se un amico non si riesce
a trovare per due giorni vuol dire che è stato colpito da qualche bomba o da
qualche pallottola. Aleppo in questo è davvero rappresentativa delle dinamiche
di una vita quotidiana che è solo funzionale ad uccidere o a resistere alla
morte.
Eppure era nato tutto da
una protesta nel 2011, sulla scia delle primavere arabe, contro il potere
feudale della famiglia Assad. Anzi a dire il vero anche prima, già dal 2006 era
stato creato un giornale online dal titolo "Syria News", finalizzato
a denunciare la corruzione nel paese, e dove alcuni blogger avevano costruito
uno strutturato sistema di relazione con alcuni dissidenti espatriati.
Attraverso il web, questo gruppo di "attivisti informatici" aveva
persino avviato una campagna mediante il semplicissimo strumento delle e-mail,
per insegnare, a chi si proponeva di diffondere informazioni contro il regime,
come evitare la censura usando i proxy.
Poi dal 2010 si andò a
sviluppare in rete un vero e proprio movimento che coinvolse cristiani e
musulmani insieme, i quali si ritrovarono nella pagina di facebook "Syrian
Revolution 2011", luogo di incontro, ma anche di elaborazione politica,
della protesta: in quell'anno si contarono 120 mila fan.
Dopo, con il passaggio di gruppi di militari regolari
alle forze di resistenza, prese avvio la guerra civile, che attirò l'attenzione
dell'occidente fino al periodo della linea rossa oltrepassata, quella cioè
dell'utilizzo delle armi chimiche. Poi l'oblio. L'interesse sulla Siria del
Nord del mondo, mediatico e politico, si attenuò, spostandosi sull'arrivo dei
migranti approdati in Sicilia. Ma ancora non era esploso il fenomeno con le
caratteristiche dell'esodo di massa che ha adesso.
Man mano che il problema
inizia a coinvolgere l'area balcanica, e la diaspora siriana diventa sempre più
ineluttabile, trasformandosi in sintesi o forse in chiave di lettura di
situazioni simili in Irak o in Afganistan, le immagini delle città siriane
distrutte, da quel momento, circolano solo sul web. Nel frattempo la Siria è
diventata terreno di caccia politico della Russia, che sostiene il carnefice
Assad, mentre il dittatore bianco ungherese Orban individua il male, con le
conseguenti azioni e leggi violente, proprio nei rifugiati siriani, e alcuni
paesi europei decidono che forse per evitare le fughe di massa da quel paese si
potrebbe bombardare l'Isis.
Intanto chi è rimasto o decide di combattere nella
resistenza o spera di non morire o di rivedere i propri cari il giorno dopo. In
ambedue vi è l'esigenza di urlare al mondo che restando sono disposti a morire
per essere un giorno liberi...
Kombatt Kurdish
E' una storia tutta da capire quella del popolo curdo, perché in Europa questa storia non ha mai destato particolare interesse, se non quando alla fine degli anni novanta il capo del partito kurdo PKK Abdullah Öcalan attraversava mezzo mondo per sfuggire ad un mandato di cattura emesso dalla Turchia.
Bologna, 24 settembre 2015 -
E' la storia mediorientale di un popolo senza Stato, che ha un nome, il
Kurdistan appunto, una lingua, che poi è l'insieme di tanti dialetti di origine
mesopotamica, e che paradossalmente avrebbe anche un territorio. Il problema è
che abbraccia quattro nazioni mediorientali: Iran, Iraq, Siria, Turchia e anche
l'Armenia, con l'aggiunta di piccole comunità che sono sparse in molte parti
del Medio Oriente. Una regione di 550 mila metri quadrati, il cui popolo è uno
dei più antichi della Mesopotamia, ad oggi numericamente il quarto di tutto il
Medio Oriente, dopo Arabi, persiani e turchi. Una stima, che sembra mettere
d'accordo in molti, li conteggia fra i trenta e i quaranta milioni di persone.
Ma
anche dal punto di vista religioso quella curda è una storia incredibile.
Essendo uno dei popoli più antichi, la sua origine religiosa risale al VI
secolo avanti cristo con lo Zoroastrismo, promossa dal profeta Zarathustra,
forse la più antica delle religioni monoteiste e forse quella che ha contaminato
le altre a venire. Infatti, nei secoli si sono sviluppate nel popolo curdo,
rispetto ai diversi insediamenti, ceppi ebraici, ceppi cristiani e ceppi
islamici, in minima parte sciiti, con la denominazione di Alevi, ma in massima
parte sunniti, che rappresenta oggi il ceppo maggiore. Per le sue
caratteristiche storiche il popolo curdo per definizione rigetta qualsivoglia
rigurgito di estremismo religioso, essendo appunto la sua storia crogiolo di
religioni. E questo è un'aspetto da non sottovalutare se si vuole comprendere
la rappresentazione del popolo curdo oggi...
La
repressione curda iniziava dopo la prima guerra mondiale. Se prima la Turchia
si era servita dei curdi per combattere la Grecia, nel 1924, furono emesse le
prime leggi che annientavano la loro identità, impedendo l'insegnamento della
lingua, la possibilità di promuovere le proprie tradizioni. Poi nel 1930
un'altra legge avviava la stagione delle deportazioni degli intellettuali. In
seguito veniva proclamato lo smantellamento territoriale del Kurdistan, e dalla
Turchia in poi l'annientamento dei curdi diventava un fattore nazionale
identitario per quei paesi che si impossessavano dei territori in questione. Da
quel momento il popolo iniziò a combattere per avere quello che gli era stato
tolto...
Da
allora la Turchia ha tacciato i curdi di essere un popolo di terroristi poiché
le azioni di resistenza e di rivendicazione più o meno violenta non potevano
essere ascritte alla lotta per la propria patria... In tal senso la vicenda
della carcerazione del leader del PKK è significativa. Poi nel 2013 la Comunità
internazionale riuscì ad avviare una sorta di cessate il fuoco, per la ricerca
di un dialogo tra le due parti... Ma solitamente questo non avviene, non può
avvenire con dei terroristi...
Nell'estate
di quest'anno succede però un fatto strano... Al confine con la Turchia,
l'unica resistenza armata all'Isis, con l'assedio di Kobane, viene condotta
proprio dal popolo curdo, dove soprattutto le donne combattono e respingono i
tagliagole dello Stato islamico. Kobane infatti viene contesa prima dagli uni e
poi dagli altri. In un momento di grande difficoltà della resistenza curda,
pezzi del suo popolo in Turchia, decidono di andare ad aiutare gli assediati
curdi contro l'Isis, che, ricordiamo, in questo momento per l'occidente è il
male assoluto. Il popolo combattente curdo si appresta a varcare il confine per
sostenere i propri fratelli in difficoltà. E la Turchia cosa fa? Glielo
impedisce! Impedisce ai cittadini curdi, pronti a combattere contro l'Isis, di
andare in soccorso dei propri concittadini che stanno morendo...
Mentre
gli Stati Uniti si affrettano a differenziare la questione curda dal vero
terrorismo dell'Isis, i giovani a cui gli viene impedito di combattere contro i
tagliagole, scendono per le strade e mettono a ferro e fuoco le città turche.
Ancora una volta l'autocrate Erdogan li apostrofa come terroristi...
Ultima
immagine: Putin va in soccorso del dittatore siriano sciita Assad, poi inaugura
la moschea più grande d'Europa a Mosca insieme ad Erdogan sunnita, presidente
della Turchia, il quale qualche mese prima impedisce ai sunniti curdi, per lui
terroristi, di salvare Kobane dall'Isis, il male assoluto dell'occidente...
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