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IL MONDO ALLE URNE

 Il 25 ottobre, in varie parti del mondo, si sono tenute importanti elezioni legislative e presidenziali: il nuovo fascismo si rafforza in Europa, la crisi del peronismo arriva in Argentina, un colpo di grazia viene dato al sistema corruttivo in Guatemala, le speranze del cambiamento evolvono in Africa.

By Marco Marano


EUROPA
 
 
Come da previsioni la destra xenofoba e nazionalista s'impone alla elezioni legislative in Polonia. Il partito Legge e Giustizia vince con il 39,1 per cento, e la designata alla funzione di premier Beata Szydlo di 52 anni, può esultare, dopo una campagna elettorale fondata sui temi di contrasto ai migranti e alla vicina Germania, vista come il male assoluto, in quanto leadere di una Europa a cui contrapporsi. Il primo ministro uscente, un'altra donna, Ewa Kopacz, leader di Piattaforma civica, si è attestata al 23,4 per cento. La Szydlo sarebbe in grado di formare un goveno con l'appoggio del terzo partito competitore, Kukiz'15, che ha preso il nome dal suo fondatore Pawel Kukiz, un ex cantante rock ultra-nzionalista, che ha ricevuto il 9 per cento dei suffragi. Sotto la soglia di sbarramento dell'8 per cento, per la Camera Bassa, sono rimasti tutti i partiti di sinistra, nati dopo la caduta dei muri, nell'89.
 
A festeggiare la vttoria insieme di Beata Szydlo è stato il deus ex machina di questa campagna elettorale, l’ex-Premier Jaroslaw Kaczyngski, fratello del presidente scomparso, in un incidente aereo nel 2009, che avevano costituito una sorta di tandem istituzionale di tipo nepotistico. Molto vicino alle posizioni del capo del governo ungherese Victor Orban, esempio di nuovo dittatore bianco, Kaczyngski ha voluto vantare l'unico primato in Europa, cioè di essere riuscito a mantenere il proprio paese fuori dalla crisi economica che ha investito l'intero continente, anzi garantendo crescita e sviluppo. Primato che ha dovuto condividere con i progressisti di Piattaforma civica, compromessi però in storie di corruzione.
 
Adesso che un'altra realtà europea si allinea alle file di quei governi dell'est, e anche qualcuno scandinavo, che in qualche modo hanno riformulato un controllo dello stato e delle politiche sociali ed economiche di tipo fascista, si fa sempre più forte la possibilità che questi paesi possano costituire una nuova forma di alleanza internazionale da contrapporre alla Nato, così come molti osservatori hanno voluto sottolineare nelle settimane passate.


 
 
 
AMERICA LATINA
 

Al primo turno delle presidenziali in Argentina, nessuno dei candidati è riuscito a prevalere. E questo infatti il tema dominate della tornata elettorale di ieri, dopo dodici anni di peronismo assoluto della famiglia Kirchner, prima con Néstor e poi con la moglie Cristina.
 
Il partito di governo Frente para la victoria, con il suo candidato di origine italiana Daniel Scioli, sembrava dessero per scontata la vittoria al primo turno, anche in riferimento alla convinzione che gli ultimi due mandati della Kirchner, impossibilitata a presentarsi per un terzo solo perché la costituzione lo impedisce, hanno avuto presa sul popolo, che tradizionalmente ama il peronismo. Ma così non è stato. Scioli ha guadagnato il 36,3 per cento, mentre il suo avversario diretto, un conservatore anch'esso italo-argentino Mauricio Macri, leader di Cambiemos, un cartello di opposizione, ha ottenuto il 34,7 per cento.
 
Ex presidente della squadra di calcio del Boca Juniors e sindaco di Buenos Aires, ha costantemente smentito i dati sulla situazione del paese, promozionati dalla Kirchner, sulla diminuzione della povertà, il calo dell'inflazione, ed il debito pubblico sotto controllo. Macrì ha invece snocciolato la situazione di innalzamento dei prezzi, prendendo come laboratorio per l'intero paese proprio la capitale da lui governata, per non parlare della povertà, ambito discusso da molti centri studi. Adesso l'atteso ballottaggio tra i due sfidanti terrà l'Argentina col fiato sospeso, anche perché se dovesse prevalere Macrì l'eminenza grigia del potere argentino, cioè Cristina Kirchner, uscirebbe definitivamente di scena.
 

Né ladro né corrotto, è stato questo lo slogan utilizzato dall'ex attore comico Jimmy Morales di 46 anni, eletto nuovo presidente del Guatemala, con il 72 per cento dei voti, al secondo turno elettorale, contro la candidata di Unidad Nacional de Esperanza, Sandra Torres. Di estrazione conservatrice, Morales ha basato la sua campagna sul non essere un politico di professione, ripetendo fino allo sfinimento, la sua avversità al sistema, inteso non in quanto sistema istituzionale, ma rispetto al fatto che la corruzione ed il ladrocinio sono elementi endemici del paese.
 
La tornata elettorale era stata fissata in settembre, a pochi giorni dalle dimissioni dell'ex Presidente Otto Pérez Molina e del suo vice, coinvolti in una bruttissima storia al di là della dimensione corruttiva del potere... Molina è accusato infatti di essere il capo di una organizzazione occulta, nota col nome di "Linea" che imponeva il "pizzo" ad importatori di merci dentro il paese, intascando milioni di dollari.
 
Adesso il compito del nuovo presidente diventa complesso, poiché da un lato deve riuscire a riconciliare il paese con le istituzioni, identificate dal popolo con le ruberie della classe politica, dall'altro deve riuscire a risollevare il paese dal baratro delle precarie condizioni sociali: il 53 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. A ciò si aggiunga l'assenza di un partito strutturato che può sostenerlo contro la nomenklatura di quel sistema che lui stesso ha demonizzato.
 
AFRICA
 

Le elezioni in Costa d'Avorio non hanno ancora decretato un vincitore. I dati arriveranno alla spicciolata entro un paio di giorni, dopo gli scrutini regione per regione, ma è chiaro che il Presidente uscente Alassane Ouattara sembra non avere validi concorrenti alla vittoria per le presidenziali.
L'attesa di queste elezioni non è stata infatti sulla sfida tra i sette candidati, ma sulle percentuali di voto, che col 60 per cento hanno superato tutte le aspettative. Questo perché la Costa d'Avorio si trascina ancora le questioni inerenti alla fine della guerra civile del 2010, anno in cui Ouattara guadagnò il primo mandato. Da allora il paese ha sempre vissuto con il fantasma di Laurent Gbagbo, l'ex Presidente che ha governato il paese per più di dieci anni, tenendolo in permanente stato di guerra, situazione che gli ha permesso di imperare indisturbato.
 
Oggi Gbagbo, che è accusato di crimini di guerra, vanta ancora un ascendente in parte della popolazione e dell'ex nomenklatura, che ha condotto una campagna elettorale fomentando piccoli scontri soprattutto ad Abidjan, capitale economica del paese, anche se gli osservatori internazionali hanno sottolineato che la campagna si è svolta in modo regolare. Ma non solo, c'è da dire che i seguaci dell'ex Presidente, al fine di delegittimare Ouattara, hanno promosso, nelle zone sotto la loro influenza, l'astensione al voto. Evidentemente il popolo ivoriano ha voglia di voltare pagina, anche se una vera pacificazione tra le due parti del paese, ricercata dalla fine della guerra civile, è ancora lontana.
 

In Tanzania lo sfoglio delle schede elettorali va a rilento, solo domani si avranno notizie su cui poter ragionare in modo strutturato. Le lunghe file ai seggi sono una chiave di lettura dell'immobilismo che vive il paese, governato da 52 anni dallo stesso partito, il Chama Cha Mapinduzi (CCM). Il suo leader, dato anche stavolta per possibile vincitore, deve però scontrarsi con una stanchezza da parte del popolo che non ne può più di corruzione e privilegi di cui si ammanta la classe politica, costruita su questa sorta di partito-stato. John Magufuli, ciquantacinquenne ex ministro del passato governo e attuale leader del CCM, si è battuto contro un cartello di partiti dell'opposizione, Ukwasa, che hanno sostenuto il sessantaduenne Edward Lowassa, anch'esso ex ministro del partito-stato tra il 2005 e il 2008, con un passato di accuse di corruzione.
 
I sondaggi, poco veritieri, sono passati nelle ultime settimane a dare un vantaggio prima all'uno e poi all'altro, come del resto i primissimi risultati che stanno uscendo dalle urne dettano una situazione di equilibrio. Oltre al presidente verranno eletti i parlamentari, insieme al Presidente dell'arcipelago di Zanzibar, che è una regione semiautonoma.
 
 
 
 

Nella Repubblica del Congo, con capitale Brazzaville, si è votato per il referendum sul prolungamento del mandato presidenziale, per abolire il limite di età di 70 anni, per le candidature. La consultazione, voluta dall'attuale Presidente Denis Sassou Nguesso di 72 anni, proprio per continuare a stare al potere, dopo una gestione iniziata nel 1979, con una pausa negli anni novanta, è stata boicottata dalle opposizioni che hanno chiesto ai cittadini congolesi di disertare le urne. La campagna elettorale si è infatti svolta in un clima di intimidazione, denunciato dagli osservatori internazionali, incompatibile con qualsiasi regime di tipo democratico. Proteste in varie parti del paese e quattro vittime durante gli scontri di martedì scorso hanno caratterizzato il clima generale. Prima di poter avere i risultati passeranno diversi giorni.
 

 
 
 
Foto credit ANSA

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