Il 27 gennaio, come ogni anno, da 13 anni a questa parte, si festeggia il giorno della memoria per ricordare al mondo la Shoah, cioè il genocidio di quei sei milioni di persone, prevalentemente ebrei, da parte del nazionalsocialismo, durante la seconda guerra mondiale. Sono passati sessant’anni da quell’incredibile strategia pianificata e sistematizzata di annientamento e ogni volta che si ricorda la shoah, vi è una frase utilizzata canonicamente: “è importante ricordare quei fatti alle nuove generazioni affinchè non si ripetano più.
Ansa
Ogni qual volta quella frase viene ripetuta una ferita grande come una casa si apre tra i sussulti del tempo e della storia, che amplifica ancora di più l’indifferenza verso il passato da parte delle nuove generazioni e questo perché, quella frase è offensiva nei confronti del presente e della cronaca dei nostri giorni.
Se milioni di persone oggi sono costrette a fuggire dai loro paesi d’origine, attraversando i deserti, solcando i mari, mettendo a rischio la vita, è anche perché quella frase è purtroppo falsa: i genocidi per motivi razziali ed etnici o anche religiosi continuano ad esserci, anzi negli ultimi vent’anni continuano ad accadere sempre di più.
Dal 1991 al 1995 le repubbliche che componevano la Jugoslavia diventavano protagoniste di una guerra civile, attraverso cui venne usata la pulizia etnica per annientare l’avversario. Ancora oggi i dati dello sterminio non sono certi si contano circa centomila vittime ufficiali ma è un dato estremamente al ribasso date le migliaia di fosse comuni non venute alla luce. Il simbolo della guerra è la strage di Srebrenica, un’enclave musulmana protetta dai Caschi Blu dell’ONU caduta nelle mani del generale Mladić, il quale, in perfetto stile nazista, fece cose di inaudita ferocia. Due generazioni per un totale di 10.000 uomini, tra i 12 e i 77 anni, furono, trasportati a bordo dei camion nei centri vicini di Bratunac, Zvornik e Kravica, dove vennero trucidati e sepolti in fosse comuni in gran segreto.
Reuters
Agli inizi degli anni novanta, in Rwanda in poco più di tre mesi si compì una delle stragi più atroci della storia del novecento. Su una popolazione di 7.300.000, di cui l’84 % hutu, il 15 % tutsi e l’1 % twa, circa 1.174.000 persone vennero massacrate in soli 100 giorni (10.000 morti al giorno, 400 ogni ora, 7 al minuto). Tra loro il 20% circa era di etnia hutu. I sopravvissuti tutsi al genocidio sono stimati in 300.000. Migliaia le vedove, molte stuprate e oggi sieropositive. 400.000 i bambini rimasti orfani, 85.000 dei quali sono diventati capifamiglia.
Il genocidio del Ruanda sfociò nel vicino nord Kivu della Repubblica Democratica del Congo, incrociandosi con un conflitto nato dalla caduta del dittatore Mobutu, sviluppatosi fino al 2003 e con rigurgiti che si spingono fino ai nostri giorni. Un rapporto dell’ONU parla di circa cinque milioni di vittime.
AFP
A questi eventi si potrebbero aggiungere tutte quelle stragi e quei conflitti e quelle violenze di natura etnica e religiosa che soprattutto in Africa si succedono periodicamente. Allora, forse, oltre che evitare quella infelice espressione che accompagna il ricordo della shoah, si potrebbe intitolare il 27 gennaio, giorno della liberazione di Auschwitz da parte dell’esercito alleato, a tutti i genocidi di ieri e di oggi, per informare, chi non lo sapesse, che avvengono ancora…
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