Amnesty
International, gli affari europei e la salvaguardia dei diritti umani tra Libia
ed Eritrea
Da un lato c’è
il progetto dell’Unione Europea di cooperare con la Libia sull’immigrazione,
rischiando di alimentare le violenze contro i migranti… Dall’altro c’è il
Migration Compact che si propone di sostenere economicamente i paesi africani
da cui si fugge, finanziando regimi autoritari e corrotti. Ma come funziona il
rilevamento dei diritti umani nei paesi autoritari?
17 giugno2016
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La denuncia di Amnesty International arriva forte e
chiara: «Il Progetto Dell’Unione Europea di cooperare più strettamente
con la Libia in materia d’immigrazione rischia di favorire i maltrattamenti e
la detenzione di un indeterminato tempo, in terribili Condizioni, di migliaia
di migranti e di Rifugiati.» L’indagine svolta durante il mese di
maggio ricostruisce, attraverso le testimonianze di 90 persone, tra cui una
ventina di rifugiati, la sconcertante situazione nel Mediterraneo. Le
motovedette libiche, che l’Europa vorrebbe potenziare, riportano indietro i
rifugiati intercettati nei gommoni. Una volta in Libia, questi vengono
trasferiti nei centri di detenzione, dove subiscono torture e stupri. Ancora
una volta l’Europa pianifica una strategia miope, calpestando i diritti umani,
che viceversa dovrebbe salvaguardare.
La medesima cosa si sta profilando con il migration
compact, programma promosso dall’Italia e accolto dalla Commissione Europea,
che ha come finalità quella di finanziare in modo stabile quei paesi africani,
da cui le persone scappano, con l’idea di poter creare lì lo sviluppo
economico. E’ la filosofia dell’aiutiamoli a casa loro, che però non tiene
conto del fatto che paesi come la Nigeria, l’Etiopia, l’Eritrea, la Somalia
hanno sistemi politici corrotti e autoritari… Da lì la gente scappa proprio
perché, quando va bene, le classi dirigenti saccheggiano le casse dello stato
affamando il popolo e, quando va male, ci si trova davanti a regimi violenti e
autoritari…
Cerchiamo allora di capire come si sviluppa il lavoro di
Amnesty International nell’individuare la lesione dei diritti umani nei paesi
del mondo, considerando che il Mediterraneo si è trasformato in questi anni
oltre che in un cimitero in un muro naturale, in perfetta linea con la tendenza
del momento storico che stiamo vivendo. Sappiamo che l’azione di
intercettazione e strutturazione delle informazioni, elaborate attraverso
report annuali, è alla base della sua attività di denuncia e questo porta molti
regimi a strumentalizzare questa azione, dandogli spesso una connotazione
politica, cosa che non è nella realtà. Jonathan Mastellari lavora nel gruppo
bolognese dell’organizzazione: «Amnesty International non può prendere
una posizione politica contro una dittatura che sia aperta o meno, ma analizza
la situazione dei diritti umani… All’interno del report annuale pubblica la
determinata situazione legata alla violazione. Per essere più specifici
possiamo dire che vi è un organo a livello nazionale che si occupa di
analizzare, sensibilizzare e diffondere materiali all’interno dei propri gruppi
di lavoro, presenti in ogni città o provincia.»
La strutturazione delle informazioni ha una sua
definizione organizzativa che si avvale di una serie di incroci legati al
lavoro dei ricercatori che possono essere utilizzati a seconda delle
caratteristiche del paese studiato o anche della situazione specifica
osservata. «Si cerca di lavorare il più possibile – continua Jonathan –
con dei ricercatori che spesso non sono persone originarie del paese in
questione. Diventa difficile, all’interno di sistemi politici non stabili,
riuscire a trovare ricercatori che riescano a mantenere equilibrio sulle
opinioni… E’ per questo che spesso si lavora anche con altre ONG come Human
Rights Watch per la raccolta dei dati. Visto che per tutti le informazioni sono
difficili da reperire, unendo le forze, cerchiamo di produrre report
qualitativamente il più possibile completi.»
In tal senso, il caso che in questi mesi è balzato
alle cronache è quello dell’Eritrea, dove è vietato l’accesso alle ONG e agli
organi di stampa, l’unico network che ultimamente è riuscito a fare un
reportage è stato France24. L’8 giugno di quest’anno Mike Smith, Chairman
della Commissione d’inchiesta dell’ONU sui diritti umani in Eritrea, in una
conferenza stampa, ha presentato l’ultimo rapporto sulle diffuse e sistematiche
violazioni in questo paese. Ha divulgato alcuni dati che fanno riflettere, il
primo dei quali riguarda il numero di persone ridotte in schiavitù,
prevalentemente, ma non soltanto, a causa del servizio militare permanente: si
aggirano in una forbice tra le 300mila e le 400mila unità. Così a dichiarato
Mike Smith: “I crimini di schiavitù, prigionia, sparizioni forzate, torture,
persecuzioni, stupri, omicidi e altri atti inumani sono stati commessi
nell’ambito di una campagna sistematica contro la popolazione civile dal 1991…
Sono i funzionari, ai più alti livelli dello Stato, ad avere la responsabilità
dei crimini contro l’umanità. La Commissione ha raccolto prove su un certo
numero di questi che verranno messe a disposizione, al momento opportuno, delle
istituzioni interessate, tra cui i tribunali.” L’altro dato fornito dal
funzionario dell’ONU riguarda il numero di eritrei che hanno attraversato il
Mediterraneo incolumi e hanno fatto domanda di asilo: 47.025 nel 2015. «Per
ciò che concerne l’Eritrea, dato che nessuna ONG riesce ad entrare, – prosegue
Jonathan – Amnesty International fa ricerca con quelle che sono le associazioni
che lavorano sul territorio, anche se non sono registrate, e che al tempo
stesso non sono apertamente contro la dittatura. Oppure si cerca di lavorare
con eritrei che risiedono fuori dal paese…»
Quello dell’Eritrea può essere considerato una sorta
di case study nell’ambito dei paesi africani, soprattutto per ciò che concerne
i finanziamenti da parte dell’Europa che arrivano nelle mani di quel regime,
descritto a tinte fosche dall’Onu. Perché il migration compct non è il solo
progetto di erogazione di denaro ma solo l’ultimo: dal Fondo di Sviluppo
Europeo, attraverso cui sono stati destinati 312 milioni di euro, fino al 2020,
e che l’anno passato ha fatto infuriare Reporter Senza Frontiere, visti il
numero di giornalisti imprigionati, fino ai 200 milioni stanziati a fine 2015
dalla Commissione Europea per ridurre la povertà, iniziativa censurata da una
risoluzione dello stesso Parlamento europeo.
In un modo o nell’altro tutti gli autocrati africani,
ben che vada, affamano il loro popolo per far arricchire le loro famiglie,
investendo il bottino in operazioni offshore, come è emerso dallo scandalo
Panama Papers, che ha coinvolto gran parte della classe dirigente africana. «
Secondo il mio personalissimo parere – sottolinea Jonathan – chi appoggia
economicamente determinati regimi ha probabilmente dei doppi fini… C’è da dire
che al di là della convenienza ad investire risorse in questo o quel paese,
queste non rispondono ai bisogni della popolazione, ma restano nelle mani delle
classi alte della società… Cioè quello che arriva ai piani alti non passa ai
piani bassi…»
Così, non deve stupire vedere i dittatori, gli
autocrati, i presidenti corrotti del continente africano che stringono mani ai
capi di stato e di governo europei, come ai rappresentanti della Commissione o
del Parlamento Europeo. Sembra un gioco delle parti dove ognuno ha un suo
posizionamento che, rispetto al punto di osservazione dell’opinione pubblica,
diventa incomprensibile. Eppure da un lato questi paesi, come nel caso
dell’Eritrea, vengono considerati non sicuri, quindi viene concessa quasi
automaticamente la protezione internazionale, dall’altro vengono accolti come
partner nel grande gioco della politica internazionale. « Pensiamo a
paesi come l’Italia, in rapporto all’Etiopia, l’Eritrea e la Somalia, –
conclude Jonathan – e ricordiamoci che queste sono state nostre colonie, quindi
bisogna andarci per forza d’accordo… Poi, per ciò che concerne gli altri paesi
europei, sicuramente in ballo ci sono equilibri da mantenere per la posizione
del paese. La Somalia, ad esempio, può diventare pericolosa per ciò che
concerne il terrorismo… Infine c’è anche da dire che se una dittatura non
arriva al grande pubblico attraverso i giornali o i telegiornali, questo può
fare gioco. Se l’Eritrea fosse un paese che si riuscisse a vendere sui
giornali, facendo notizia sulla situazione dei diritti umani, forse i politici
avrebbero un altro tipo di approccio…»
I due popoli eritrei nel giorno della festa nazionale
Il
24 maggio vi è stata la festa d‘indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia. Le
comunità eritree, sparse in tutta Europa, figlie della diaspora, hanno
festeggiato con due modalità differenti: da un lato coloro che caldeggiano il
governo autoritario e dall’altro i dissidenti.
25
maggio 2016
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Sono due pezzi di popolo che nelle città
europee si contrappongono. I lealisti alla dittatura vivono in silenzio, un pò
nascosti, su una linea di confine tra leggi del luogo e collegamenti col
regime. Gli altri, i dissidenti, i rifugiati, gli oppositori alla dittatura di
Isaias Afewerki insomma, cercano di fare sentire la loro voce, di denunciare la
violazione dei diritti umani nel loro paese.
Un rapporto dell’ONU del giugno 2015 rilevava i
caratteri totalitari del regime eritreo, dove da ventidue anni vi è al potere
lo stesso uomo, senza mai indire elezioni. Non esiste possibilità di entrare
nel paese da parte delle delegazioni delle Nazioni Unite per monitorare la
situazione, ma neanche dagli organi di stampa. Dice il rapporto ONU: «pervasivo sistema di sorveglianza e spionaggio che
colpisce gli individui dentro e fuori dal paese. Vivendo nella costante paura
di essere monitorati e temendo di essere arrestati, torturati, fatti sparire e
uccisi, gli eritrei si autocensurano in molti aspetti della vita».
Alla fine del 2015 la Commissione Europea aveva
stanziato 200 milioni di euro all’Eritrea, con l’intento di ridurre la povertà e sostenere la popolazione,
dando nuove opportunità di lavoro e migliorando le condizioni di vita. Il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione,
indirizzata verso la Commissione Europea, in cui si evidenzia in Eritrea
l’assenza dello stato di diritto, della libertà di stampa e delle libertà
fondamentali.
Nella risoluzione si chiede che venga messo fine al
servizio militare permanente, da ridurre a 18 mesi al massimo, si critica
l’impunità sugli abusi sessuali, e la pratica illegale della tassa del due per
cento sui redditi di chi vive fuori dai confini del paese. Il Parlamento
Europeo ha chiesto inoltre di avere garanzie dal governo eritreo nell’attuare
riforme democratiche che garantiscano i diritti umani, prima di destinare fondi
che in questo modo non andrebbero al popolo ma ad una dittatura.
Il
24 giugno si riunirà a Ginevra la Commissione ONU per la seconda volta, dopo
quella dello scorso anno, per esaminare ancora la situazione dei diritti umani
nel paese…
La denuncia dei giovani democratici eritrei a Bologna è forte: la dittatura
sta uccidendo i nostri fratelli!
In una
manifestazione di protesta a Bologna per l'ennesima strage compiuta dai
militari eritrei contro dei giovani in fuga, si chiede a gran voce la
solidarietà dei popoli e la condanna dei governi europei.
11 aprile 2016
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E' un sabato pomeriggio uggioso a Bologna, piove ad
intermittenza, ma i ragazzi del Coordinamento Eritrea Democratica, non sono
affatto scoraggiati. Su facebook rilanciano l'invito alla manifestazione. Del
resto quello che è successo la settimana prima, nei pressi di Asmara, la
capitale dell'Eritrea, è davvero terribile. "Bisogna denunciare le
atrocità della dittatura, denunciare a tutti i costi!" Ecco come lo
raccontano: "Una domenica ad Asmara. Un convoglio di soldati
trasporta diverse reclute destinate al servizio militare a vita e in pratica ai
lavori forzati. Le giovani reclute arrivano dai campi di addestramento e sono
dirette ad Assab, dove saranno obbligati a lavorare come operai. Pochi minuti
per tentare di sottrarsi a un destino di violenza, di obbedienza e di sfruttamento.
I giovani disertori saltano giù dal convoglio e vengono prontamente uccisi a
fucilate, assieme a un numero imprecisato di civili, dai soldati sul convoglio,
che avendo ricevuto istruzioni di non fermarsi per nessuna ragione, continuano
per la loro strada."
Quella eritrea è una dittatura spietata, la più
spietata al mondo, insieme a quella coreana del nord a sentire il rapporto
dell'Onu, pubblicato lo scorso anno. Nel rapporto si parla di sistematiche e
diffuse violazioni dei diritti umani, con un governo totalitario che agisce
senza preoccuparsi di violare le proprie stesse leggi, poiché non c'è nessuno a
cui deve e può rendere conto. Del resto il suo presidente, Isaias Afewerki è al
potere dal 1993, da quando cioè l'Eritrea ottenne l'indipendenza dall'Etiopia,
dopo trent'anni di guerra civile. Già la guerra...
Ci fu una parentesi tra il '98 ed il 2000 nel
conflitto con l'Etiopia, per una questione di confini, che portò alla morte
quasi ventimila giovani. Poi, tramite un arbitrato internazionale, l'accordo di
Algeri, furono le Nazioni Unite a definire i confini. Ma questa storia sembra
non avere spazio nè tempo, poiché l'instabilità tra i due paesi pare essere
una scusa per tenere la popolazione eritrea in un continuo stato d'allarme...
Ed è questo uno dei motivi che spiegano l'altro elemento caratterizzante di
questa dittatura spietata: la leva illimitata... Cioè a dire, un giovane che
presta il servizio militare è obbligato a farlo a tempo intedeterminato. Ecco
perché la diaspora eritrea continua negli anni. Ecco perchè i giovani fuggono
da un destino che uccide la loro anima prima che il loro corpo.
"Noi scappiamo – urla Abrham, uno dei promotori
della manifestazione, dal suo megafono – perché nel nostro paese non c'è la
libertà, non abbiamo la possibilità di vivere, l'unica possibilità è fare il
servizio militare per tutta la tua vita, senza essere pagato, senza diritti.
Noi siamo giovani e vogliamo un futuro come tutti gli altri giovani. Ed è per
questo che moriamo. Si muore a Lampedusa, si muore nel deserto. Ma questi
ragazzi invece sono morti ad Asmara, nella nostra capitale...
Ma cosa significa oggi vivere in Eritrea? Dal rapporto
ONU leggiamo del modo in cui il dittatore ha costruito un sistema sociale del
terrore, del tutto simile a quello della Germania dell'Est, ma potremmo dire
anche a
quello della Romania di Ceaușescu. Dando per scontato
l'annientamento di qualsiasi forma di opposizione politica, con arresti
arbitrari, sparizioni, giustizia sommaria... Ma l'elemento che rende tutto
più atroce è il controllo sociale. Qualsiasi aspetto della vita viene messo
sotto la lente d'ingrandimento, grazie ad un sistema di delazione diffusa, che
porta anche coloro che non compiono nessun reato ad entrare in un sistema tale
che li potrebbe portare ad essere condannati ai lavori forzati. Molti cittadini
eritrei, che risiedono in patria, hanno la costante sensazione di essere
controllati... La fuga diventa per chi è giovane l'unica soluzione possibile,
ma come abbiamo visto, arrivare vivo in un paese europeo non è una cosa
semplice. Prima devi riuscire ad oltrepassare i confini, perché se ti beccano
ti sparano senza pensarci due volte. Poi c'è il deserto, poi c'è il mare, poi
c'è l'Europa che issa i muri...
La cosa ancora più stupefacente è il modo in cui il
controllo sociale viene gestito anche all'estero, fuori dai confini. Sono due
la dinamiche. A spiegarcele è Selam Guesh, del Coordinamento bolognese Eritrea
Democratica, naturalizzata italiana, poichè con la doppia cittadinanza: "In
una città come Bologna, dove la comunità eritrea è molto importante, ci sono
organizzazioni strutturate, sottoforma di associazioni ad esempio, che sono
direttamente legate ai consolati o alle ambasciate... Ovviamente sanno tutto di
noi, se vengono alle nostre manifestazioni noi li riconosciamo... Quando
organizzarono al Parco Nord un festival filo-governativo, siamo andati a
contestarli, e sono venuti eritrei di mezza Europa... Fortunatamente le nostre
proteste hanno sortito un effetto positivo perché i giornali ne hanno parlato
ed il Comune di Bologna si è impegnato a non concedere più spazi pubblici per
queste iniziative..."
A Bologna, nel settembre del 2012 ci fu un evento che
la dice lunga sul controllo sociale eritreo in questa città. Un incontro organizzato
dall'Eritrean youth solidarity for change, dal titolo "Eritrea tra passato
e nuove speranze - Fuga da una prigione a cielo aperto", fu interrotto da
una sessantina di persone sostenitori della dittatura, che inneggiarono slogan
contro i presenti, con insulti e intimidazioni. Questo perchè, a quello che
sembra di capire, la comunità eritrea di Bologna è tradizionalmente
filo-governativa. C'è del paradosso in questo, poiché i ragazzi di Eritrea
Democratica devono combattere una battaglia culturale, quando non si tratta di
intimidazioni dirette, persino in un paese europeo come l'Italia, dove la
separazione dei poteri garantisce uno stato di diritto, di cui chi appoggia le
dittature ne gode. "Ci sono molti giovani – continua Selam – che
non prendono posizione, forse perché hanno paura, forse perché i loro
genitori lo impediscono". Quello sottolineato da Selam
sembra un altro paradosso, perché foraggiare, anche col silenzio una dittatura,
ma vivere in un sistema dove la libertà viene garantita sembra un segno dei
tempi...
Ma esiste un altro metodo di esercizio del controllo
sociale. Ancora Selam: "Il governo eritreo obbliga gli emigrati al
pagamento di una tassa del due per cento sul reddito. E sei costretto a
pagare perché viceversa non puoi rinnovare i documenti, come qualsiasi atto
giuridico che debba passare dall'ambasciata o dal consolato. Poi chi ha
parenti, se non paghi, non potrà più vederli perché non ti fanno varcare i
confini, per cui questa diventa una forma di sottomissione..." C'è
anche da dire che il mancato pagamento di questa tassa si traduce poi in
ritorsioni nei confronti dei familiari in patria, nel ricevere dall'estero
merci e cibo, al punto da ledere la libertà personale nei paesi europei, poiché
la rete diplomatica all'estero è riuscita a creare sistemi di controllo per
impedire che questa tassa venga evasa.
E qui si apre un'altro tema, quello che riguarda i
rapporti tra i governi europei ed il regime autoritario eritreo. Da un lato
viene concessa ormai d'ufficio, quando le persone riescono ad arrivare vive in
Europa, la protezione internazionale, essendo l'Eritrea considerato un paese
"non sicuro", dall'altro molte dinamiche relative al controllo
sociale dentro l'Europa, non vengono neanche stigmatizzate. Siid, un'altro
attivista del Coordinamento Eritrea Democratica, dal megafono della manifestazione
di sabato scorso sttolinea un aspetto inquietante: "Subito dopo la
morte degli undici ragazzi ad Asmara, l'Europa ha firmato un accordo, per
finanziare la dittatura eritrea con 175 milioni di euro in cambio della
soppressione dei rifugiati... Non possiamo accettare questi doppi giochi. Le
persone stanno morendo ogni giorno. Cinquemila giovani stanno uscendo da quel
paese ogni mese. E' stata prolungata di un altro anno l'inchiesta dell'Onu per
indagare sui crimini contro l'umanità, e arriverà a giugno a pronunciarsi. Se a
giugno verranno accertati i crimini contro l'umanità, questo governo deve
pagare...! E voglio vedere i governanti europei che hanno dato una mano a
questo governo cosa diranno..."
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