Le proteste di massa dell’estate 2013, che hanno visto il popolo turco sfidare il governo del primo ministro Erdogan, sembravano cadute nell’oblio dopo gli sgomberi di piazza Taksim, divenuta nuovo simbolo delle proteste popolari. Se all’inizio i motivi delle contestazioni erano legati ad un parco da demolire per farvi un supermercato, le nuove mobilitazioni hanno preso vita in seguito alla morte di un giovane di 22 anni, colpito alla testa da un candelotto, durante una manifestazione. Sia la prima che la seconda volta il capo del governo ha voluto usare la mano pesante sui manifestanti, stigmatizzati come terroristi, utilizzando strumenti e metodologie antisommossa estremamente violenti, tanto da dover subire i richiami dei paesi europei, sulla libertà di manifestazione.
C’è da riflettere sul fatto che la Turchia sia una democrazia presidenziale, dove il popolo ha eletto un governo legato alla dimensione islamica. Erdogan è a capo di un partito epigono dei Fratelli musulmani egiziani, quindi un partito sunnita, che ha fatto pensare all’opinione pubblica europea che potesse essere possibile coniugare democrazia con islamismo. In effetti quello turco è l’unico stato democratico, istituzionalmente stabile, che coniuga democrazia e sharia, tanto da farne una sorta di modello, per i vicini paesi mediorientali.
Il punto è che questo modello di fronte a delle proteste popolari di piazza reagisce in spregio delle regole democratiche, anche perché è estremamente evidente che una parte del popolo, quello laico, in piazza ci scende per determinare la propria libertà di espressione, come metodo di convivenza civile, prima di tutto. Nell’estate del 2014 sono fissate le elezioni presidenziali, a cui Erdogan dovrebbe candidarsi, per cui l’elemento di discrimine diventa quello che pressappoco contraddistingue l’Egitto: se la maggioranza del popolo è musulmana è legittimo che un governo islamico bypassi le regole della democrazia?
Perché la libertà di espressione, insieme alla separazione dei poteri, è l’essenza stessa di una democrazia, quando un governo di natura islamica non tollera la libertà di espressione, che sia essa religiosa o politica, e la reprime in piazza o cerca il controllo su internet, dove i social network diventano dei veri e propri luoghi di liberazione, allora è chiaro che il modello continua a non funzionare. Continua cioè quella ambiguità di fondo che impone alla parte laica del paese di sospendere le proprie prerogative per assoggettarsi alla maggioranza islamica e alle regole proprie al sistema religioso.
Intanto è stato riaperto il processo per l'omicidio del giornalista turco-armeno Hrant Dink, ucciso nel 2007 da un giovanissimo, allora minorenne, nazionalista turco, reo confesso. Tra gli ispiratori dell'omicidio venne condannato su 19 accusati, Yasin Hayal, con una sentenza che fece scalpore poichè venne scongiurata la tesi di un complotto nato da funzionari pubblici, quindi dentro il cuore dello Stato.
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