Anche al
presidio di Bologna qualcuno ha continuato a far finta di non sapere, di non vedere, di non capire...
di
Marco Marano
Bologna, 21 aprile 2017 - C'era
un misto di tristezza unita a rabbia in quel giovedì 20 aprile in
piazza del Nettuno a Bologna. Un tardo pomeriggio in cui una piccola
folla si è radunata per portare il suo personale contributo in
sostegno a Gabriele Del Grande, il giornalista, che ci piace definire
“mondialista”, arrestato in Turchia, al confine con la Siria.
Hanno
parlato in tanti in quel pomeriggio, un microfono aperto: dal normale cittadino ad un paio di politici, dai colleghi
giornalisti a qualche rappresentante delle comunità migranti di
Bologna. Tutti hanno espresso il loro dolore, chi con semplicità, chi
con una qualche punta di ipocrisia. In alcuni c'era una domanda che veniva lanciata come un grimaldello pesante sulla storia
stessa di Gabriele: perché è stato arrestato...?
La parola che fa paura: dittatura
In molti hanno parlato degli arresti indiscriminati dei 153 giornalisti, cioè la metà di tutti i reporter nel mondo attualmente detenuti: un vero record, neanche Pinochet ha saputo far tanto. Ma ci sono anche funzionari pubblici, docenti universitari e di scuole superiori, professionisti e soprattutto i leaders del partito filo kurdo di opposizione HDP Selahattin Demirtas e Figen Yuksekdag.
In molti hanno parlato degli arresti indiscriminati dei 153 giornalisti, cioè la metà di tutti i reporter nel mondo attualmente detenuti: un vero record, neanche Pinochet ha saputo far tanto. Ma ci sono anche funzionari pubblici, docenti universitari e di scuole superiori, professionisti e soprattutto i leaders del partito filo kurdo di opposizione HDP Selahattin Demirtas e Figen Yuksekdag.
In
tanti, nel pomeriggio bolognese, hanno descritto le condizioni
difficili in cui versa la Turchia, vari gridi di dolore per la guerra
in Siria, per i morti nel Mediterraneo. Tutte cose sacrosante, certo,
ma nessuno ha proferito l'unica parola che doveva essere detta:
dittatura! Che la Turchia sia una dittatura sembra non essere
la questione di fondo, mentre è il tema centrale che spiega
l'arresto di Gabriele.
La vergogna come sfondo dell'arresto
Non ci sono giri di parole per descrivere diversamente la situazione, e la vergogna di un paese come l'Italia, che ha contribuito, insieme al resto dell'Europa, a legittimare un dittatore come Erdogan, garantendogli sei miliardi di euro per non far passare i rifugiati in un continente di cinquecento milioni di abitanti, il più ricco e rigoglioso, plana su tutti noi. Ma qualcuno, coperto da questa vergogna, si domanda ancora perché Gabriele sia stato arrestato?
Gabriele è stato arrestato proprio perché combatte questa vergogna, insieme ad altre, e lo fa da più di dieci anni, come narratore, documentarista, “archivista” di informazioni sulla “Fortesse Europe”, il titolo del suo blog in cui ha documentato una per una le morti nel Medierraneo.
La
vergogna è dunque lo sfondo dell'arresto di Gabriele, la vergogna di
non voler ammettere, così come fu per Pinochet negli anni settanta,
che il mondo occidentale fa affari con uno spietato dittatore,
legittimato a fare ciò che vuole, perché tanto il partner europeo
oltre ai proclami etici non può nulla, non vuole fare
nulla...
Il tentativo di Gabriele nel raccontare lo scempio contro il popolo kurdo
Poi però ci sono le ragioni concrete per cui Gabriele è stato arrestato che riguardano quello che lui faceva nel momento in cui è stato fermato, cioè intercettare storie, individuare fatti, intervistare le vittime dello scempio che il dittatore Erdogan sta compiendo indisturbatamente sul popolo kurdo. Gabriele è stato preso sulla linea di confine tra la Turchia e la Siria, quella linea di confine attraverso cui Erdogan fino allo scorso anno ha potuto fare affari con l'Isis per il traffico di armi e petrolio di contrabbando.
Nella
parte turca da est a ovest sono tutti insediamenti kurdi, villaggi e
città che Erdogan continua a bombardare, massacrando donne, bambini,
vecchi, giovani, nell'indifferenza dell'Europa. Sotto, nella parte
siriana, c'è il Rojava, la confederazione cantonale a democrazia
diretta che il popolo kurdo ha istituito una volta liberatosi dall'Isis, e che Erdogan, sempre da est a ovest, continua a
bombardare, mentre costruisce un muro, in perfetto stile
Europa dell'est, sulla linea di confine tra i due Kurdistan, quello
turco e quello siriano del Rojava.
Gabriele
era lì, per documentare quelle storie. E questo, una dittatura non
può permetterlo. Infatti gli interrogatori che sta subendo sono
protesi a scoprire cosa sa di quelle zone, con chi ha parlato, cosa
pensa di poter raccontare. Il rischio è chiaro: se non esce subito
attraverso un fermo intervento dello stato italiano, sarà
possibilmente accusato di essere vicino al PKK, il partito
rivoluzionario kurdo, considerato terrorista da Erdogan. Perché è
così che funziona nella dittatura turca, quando si vuol far tacere
qualcuno: o sei terrorista kurdo o sei affiliato alla rete di
Gulen...
L'inopportuna ipocrisia
L'inopportuna ipocrisia
Ci
dispiace parlare di ipocrisia in un momento come questo, sembrerebbe
mancare di rispetto a Gabriele, mentre è l'opposto, perché è stato
arrestato proprio per quei motivi che politici e giornalisti
mainstream non vogliono dire.
Come l'inopportuno intervento
dell'assessore Matteo Lepore ad esempio: “I problemi del
Mediterraneo sono più grandi di noi e non possiamo risolverli...”
Peccato per lui che proprio Gabriele, insieme alle organizzazioni non
governative che lavorano in Libia sul campo o anche l'UNHCR,
l'agenzia ONU per i rifugiati, sono dieci anni che ripetono la stessa
cosa e cioè che il problema degli sbarchi, delle morti e dei
trafficanti nel Mediterraneo è “risolvibilissimo”, basta aprire
i corridoi umanitari...
Commenti
Posta un commento