Camminando per le strade di Budapest si respira l'Europa. La sua storia, le sue tradizioni, il suo sistema architettonico la rendono elegante, con quel suo modo altezzoso di porgersi a chi non la conosce. Ma nella capitale magiara si respirano anche sapori multietnici. Le strade sono colme di segnali propri a culture diverse, con i linguaggi costruiti su grammatiche anche lontane che diventano parte integrante degli spazi urbani, in quello che sembra un vero e proprio luogo di contaminazione.
Percorriamo lo slargo dell’Oktogon, indirizzandoci verso la stazione ferroviaria, camminiamo sull’arteria centrale, la Teréz Körút, incuneandoci, di tanto in tanto, tra le strade adiacenti. Troviamo locali, scritte, messaggi visivi legati a paesi diversi. C’è il kebab arabo o il ristorante messicano.
C'è anche una tavola calda buddista, di fronte al ristorante turco. E ancora la teeria tibetana qualche decina di metri più avanti di un locale greco e giapponese, ma c’è anche il Cafe factory, e, proprio dentro la stazione, c’è un McDonald al piano inferiore ed un “cappuccino italiano” al piano superiore, collegati da una specie di ammezzato.
Vista così la cosa sembra assolutamente normale nel mondo d’oggi, ma se si vanno a leggere le modalità di gestione territoriale della città, nel contesto degli eventi nazionali, sembra, camminando per le strade di Budapest, che la realtà sociale sia tutt’altro da quella politica.
Questa strana forma di schizofrenia si allinea alla perdita dei punti di riferimento di tutta la governance europea, molto impegnata a far quadrare i conti e pochissimo a monitorare le conquiste legate ai diritti di cittadinanza tipici della civiltà liberale, come anche quei criteri di giustizia sociale atti a garantire il popolo.
Dalla caduta del regime comunista all’entrata dell’Ungheria nell’Unione Europea, il sistema legislativo, in tutti i suoi comparti, non è mai stato adeguato al nuovo tempo storico. Si pensi alla stessa carta costituzionale, che non è mai stata riscritta, ma solo emendata con degli elementi tipici dello stato di diritto, come la separazione dei poteri. E questa situazione magmatica ha permesso, proprio pochi mesi fa, alla schiacciante maggioranza parlamentare di estrema destra del Fidez, il cui leader è Viktor Orbàn, di riscrivere una costituzione ultranazionalista che si fonda sulla dimensione etnica dell’essere cittadino ungherese a prescindere da quale paese si trovi. Questo significa riprendere il mito dell’impero, riaccendendo motivi di conflitto con alcuni paesi limitrofi e limitando i diritti di chi non è ungherese.
Il vicesindaco di Budapest, nonché assessore agli affari sociali e sanità, Tamas Szentes, del partito Fidez, all’interno di un workshop internazionale, legato ad un progetto europeo dal titolo “Lecim”, ha spiegato come funziona il sistema di welfare territoriale. O per meglio dire ha spiegato che in Ungheria, allo stato attuale, non esistono quei diritti acquisiti, in quanto popolo, tipici della tradizione democratica europea .Prendiamo il sistema sanitario nazionale ad esempio, infatti è emblematico il fatto che i servizi sanitari gratuiti sono assicurati non a tutti indistintamente e neanche a chi è in uno stato di indigenza o ha un basso reddito, ma solo a coloro che hanno un lavoro stabile, quindi un reddito e possono pagarsi una sorta di “assicurazione sanitaria”.
Occorre, insomma, essere ungherese ed avere un lavoro stabile per poter avere assicurati i diritti di cittadinanza: un paese come questo ha presieduto l’Unione Europea i primi sei mesi del 2011. Ma livello locale che tipo di ricadute vi sono sul territorio?
Tra gli operatori sociali della città, è palpabile lo scoramento, a causa della loro condizione professionale, e malgrado questo cercano di mantenere alta la loro personale motivazione. Esiste infatti una situazione di grande scollamento tra il corpo istituzionale e la società civile organizzata, come le associazioni o le ong, sia per l’assenza di quadri normativi evoluti, ma anche per il fatto che essi non hanno interlocutori istituzionali per attivare azioni sul territorio legate alle parole d’ordine europee come coesione sociale, inclusione, integrazione… Considerato che queste organizzazioni sono le uniche a proporsi, dentro i 23 distretti urbani, come portatori di “welfare state”, in quanto soggetti privati però, la fotografia che esce fuori è estremamente controversa…
Ma camminando per le strade di Budapest anche la Grecia non sembra tanto lontana, nel senso che sono due facce di una stessa medaglia, e il fallimento del sogno europeo ne rappresenta il conio. Il default greco ha come prodromo un governo elitario o oligarchico che non ha mai pensato a fare riforme strutturali, che ha individuato i ceti medi come gli unici designati a pagare, lasciando fuori, ad esempio, la casta degli armatori, potente lobby politico-economica. Così la Grecia rischia di uscire fuori dall’euro, l’Ungheria non può nemmeno pensare di poterci entrare, e a catena vi è il rischio che i paesi deboli come l’Italia, la Spagna e il Portogallo vengano travolti dalla crisi del capitalismo
Ma prima di essere crisi del capitalismo questa sembra essere la crisi dei sistemi liberali che continuano a garantire le oligarchie a danno dei popoli, così come la governance europea ha fallito nel pensare che sollecitare i paesi a far quadrare i conti poteva bastare; e invece no, occorreva stimolare le nazioni a far quadrare i conti sulla base dei precetti della giustizia sociale, elemento sostanziale di ogni sistema democratico.
foto radiocentomondi.net
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